Linea d'ombra - anno VIII - n. 48 - aprile 1990

■ ìl•l'IIJl•l: ■ W invano. Eppure, per tutti, il teatro di Fo è "provocatorio", ma è una definizione che rimane attaccata allo stile. Certo quello di Fo è spinto, a forti tinte, estremizzato: è - come dire? - "barocco". Del resto si sa che non è più il tempo delle "commedie dell'arte", quando il Secolo diventa d'Oro e il Silenzio invece, proprio come il dissenso, si è svalutato completamente. Proprio per questo, anche se "sghignazzare:: è tornato a essere un verbo alla J acovitti, non si può non condividere il sogno e il diritto di mettere in scena la verità della nudità del re. Ma è proprio questo il problema di sempre più difficile soluzione, soprattutto man mano che si pretende un sempre più facile approccio. Certo la soluzione non sta nel contro-informare: ormai la pessima politica e il brutto giornalismo hanno riempito tutti gli spazi e i tempi dell'utenza. Tutta l'informazione è divenuta ''contro", almeno a guardare la gara tutta clericale dei sempre più numerosi e accesi opinionisti, e la censura o la repressione hanno da tempo lasciato il posto alla liberata e sovrabbondante circolazione dei giudizi e delle invenzioni. Purché cessino di ritenersi delle "idee". Così si è già abituati a vedere nudo, se non il Re, almeno Spadolini - e non solo nelle vignette-, e per vedere altre e più scandalose nudità non c'è documentazione o fantasia che tenga. Come vuole l'aneddoto, occorrerebbe disporre dello sguardo e dell'anima di un bambino, altrimenti la nudità del re è vera come . una constatazione banale e, per parafrasare e contestare il grande timoniere di un tempo, "la verità non è ancora rivoluzionaria". È chiaro a tutti che non vi sono più bambini in platea. Così come conviene ammettere non vi sono mai stati nonostante la disperata illusione o la forsennata propaganda. Non resta che pensare che il "bambino" famoso sia anche lui in scena. E a leggere la recente intervista a Dario Fo, raccolta e pubblicata da Luigi Allegri (Dario Fo. Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, lafollia e la ragione, Bari, Laterza, 1990) non si può non restare interdetti dalla coincidenza. In un passaggio della conversazione, l'intervistatore, certo più trascinato dall'entusiasmo che dalla piaggeria, azzarda a proposito di una imminente commedia di Fo sulla Mafia: "Mentre mi raccontavi la storia di questa commedia, pensavo al ragazzino. Non so chi sarà il ragazzino che sceglierai per interpretare il personaggio, però, voglio dire, se lo facessi tu? Io ti ci vedo, tu che fai il ragazzino incantato di fronte alle favole, tu potresti farlo bene, altri non so." Certo, "Dario Fo -còme recita il retrocopertina del libro-è il più grande autoreattore comico italiano vivente", ma proprio se questa definizione è tanto innegabile quanto meritata, è tempo di esagerare con le critiche e le domande invece di ostinarsi a collezionare feticisticamente le risposte; magari con l'atteggiamento arrendevole e la complicità adorante di quanti sembrano aver fretta di considerare "storica" o "postuma" la stessa epigrafe. Sono passati i tempi m cui beatamente potevamo addormentarci davanti ad un televisore, sapendo che la sua presenza poteva trasformarsi semmai in un fastidioso fruscio di fondo o nella luce di un freddo abat-jour. Qualcosa ora è cambiato e occorre fare attenzione. "Quell'occhio ci guarda" leggo da alcuni ritagli, "il video non chiede di essere guardato, ma guarda"; "Attenzione! la televisione ci guarda" e poi più esplicitamente: "Si sentiva osservata, inquisita, da tutti i personaggi che comparivano in tv, e ne provava un terrore inesprimibile. Ridotta come il protagonista del romanzo di Orwell, la poveretta aveva la sensazione di venire espropriata di ogni privacy. Finché Una notte ha scagliato il portacenere contro il televisore per accecarlo". Attingendo alla propria memoria, penso che ognuno di noi ricordi di aver avuto a che fare con episodi meno tragici,. ma analoghi: una mi~ conoscente, ad esempio, durante il pranzo dava sistematicamente le spalle alla tv ·accesa perché, diceva lei, non gradiva essere guardata da estr3J\ei mentre mangiava. Era donna d'altri tempi, e la sua ingenuità f;lCevaallora sorridere, ma oggi appare premonitrice. In effetti una predisposizione al voyeurismo la televisione ce l'ha da sempre: a differenza del cinema, dove ancora oggi è considerato un'errore volgere lo sguardo verso la cinepresa (non guardate la macchina!), la tv da sempre sollecita questo atteggiamento LATVCHECl GUARDA PaoloRoso modello tipicamente adottato dai nostri giornalisti-intellettuali, e ben lungi dal filosofare con i toni catastrofici ed estetizzanti che hanno segnàto buona parte delle pubblicazioni degli anni appena trascOrsi, l'autore costruisce UÌla lettura a partire da quegli strumenti che, dal Rinascimento in poi, hanno tentato di prolungare la nostra vista. Quelle protesi che ci hanp.oaiutato av_ederepiù lontano e più in piccolo sino a percepire ciò che non è in realtà, le immagini di sintesi cioè, ·prodotte dalle attuali tecnologie elettroniche. Un percorso che illustra con chiarezza il-passaggio da un'ottica passiva, quella legata alla nostra percezione diretta o attraverso strumentimeccanici come le lenti, a un' ottica attiva che si realizza attraverso una macchina. "Le cose sono andate così avanti - riassume l'autore-che sipuò giàparlare di una automazione della percezione, e questo è un avvenimento considerevole dal punto di vista filosofico. Fino ad ora le scienze sperimentali, le scienze esatte si sono costituite sulla prova attraverso l' esperimentazione di un uomo· che tramite i suoi occhi è testimone di tal avvenimento. La prova dell'uomo era .necessaria perché ci fosse una dimensione sperimentale delle scienze. Ora noi andiamo verso delle tecniche in cui la prova sarà data attraverso delle macchine per vedere". Nella quotidianità queste macchine possono ridurre al niente le nostre esperienze dirette, esperienze su confidenziale ( guardate verso la telecamera!) proiettando le oc-. chiate di osservatori non graditi dentro le nostre case, trasformando via via quella scatola luminosa in un qualcosa che ci rivolge costantemente lo sguardo. Eda qualche tempo possiamo legittimamente chiederci se una macchina può davvero vedere. "Ora gli oggetti mi guardano".Questa citazione di Paul Klee, che contiene già una risposta, apre l'ultimo capitolo del libro La macchina che vede scritto da Paul Virilio e uscito recentemente da Sugarco. Virilio, urbanista, sociologo, critico d'arte e soprattutto studioso delle trasformazioni culturali indotte dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, è anche specialista in problelni dello spazio militare e del territorio, ambito nel quale riesce a far convergere i suoi molteplici interessi e dal qua1etrae stimoli per alimentarli e approfondirli. Questo libro ci offre un articolato contributo per comprendere le inquietudini do~ute alle nostre sensazioni, ma non certo per rassicurarci, arizi, dovessimo trarne da subito una conclusione, per avvertirci del rischio che corriamo di diventare passivi terminali di un immaginario del tutto artificiale. Senza rinchiudersi nelle.strettoie di una analisi "tivucentrica", .. 91

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