TEATRO del drammaturgo davvero non basti- e non sia mai bastata a superare tanto ostacolo: non si dovrebbe davvero prendersela con Dario Fo per il solo motivo che è l'unico che ci prova. Però sarebbe ora di riflettere anche sul glorioso passato e magari di cominciare a riconoscere che molte cose erano già sbagliate e altrettante sono cambiate, dal tempo in cui "il teatro era politico e il politico era teatro". Una prima considerazione è così invecchiata da invogliare molti a una sconveniente dimenticanza, e riguarda il fatto che l'uso politico del teatro passa sempre e soltanto dal problema del pubblico, prima che da quello del testo o dello spettacolo (e nessuno meglio di Dario Fo dovrebbe saperlo, visto che ce l'ha insegnato). E il pubblico il referente e l'interlocutore primo delle provocazioni o delle controinformazioni che si intendono operare. E le domande e le soluzioni tentate anche maldestramente su "quale pubblico?", "per quale esito o uso del teatro?", "con quali . conseguenze per l'arte teatrale stessa o per la sua cultura?", sono poiquellechehannodatoil contributo di rilancio più significativo al teatro contemporaneo, esplicitamente politico o no. Su questo terreno il lungo capitolo del teatro politico di Dario Fo (e dei moltissimi altri partecipanti e responsabili, cioè del "sQo" pubblico), oggi ridotto a breve e disincantata memoria, ha accumulato molte esperienze e altrettanti importanti errori in quella che è stata la più lunga e più eccezionale stagione di teatro politico che si sia mai avuta in Italia. Forse l'eredità di tutto questo è tanto più pesante quanto più è taciuta, se è vero che il personaggio "positivo" e le tentazioni · didascaliche sono restate a testimoniarla o surrogarla. Il fatto è che già nel "teatro politico", cioè in presenza del "suo" pubblico e della impropria ma stupefacente "manifestazione" a cui dava vita insieme agli attori, la tragedia (della casa, del lavoro, della droga o degli espropri proletari ...) era di discutibile approccio e di davvero precaria soluzione. Ma si poteva sempre dire - e si può ancora ricordare - che l'autorizzazione a procedere veniva da quella strana autocompiaciuta comunità che si raccoglieva in platea: non a caso tesserata come una "Comune", si raccoglieva e si dibatteva all'interno di una prevista ma non tutta scontata liturgia di consenso. Il rito del passaggio del teatro di Dario Fo, a prescindere da come e da quando lo si vorrà finalmente analizzare Dorio Fo in // Papae la Strega (foto di luigi Ciminaghi/arch.Tealro Nuovo, Milano). 90 e giudicare, veniva partecipato ovunque come una necessaria forma di autoaffermazione un innegabile "movimento". Senza voler discutere né il movimento né questo suo teatro, è chiaro come si palessasse legittimo-anche quando demagogico e illusorio - ìl tentativo di contro-informare, di provocare, di proporre la verità e cioè la fatidica nudità del Re. Ma, se questo è stato vero, non si sa più come si può ovviare all'assenza di un movimento politico di spettatori e sperare in un analogo successo del Messaggio di fronte a una comunità che è tornata a essere quella del Teatro. Ci vuol altro davanti agli abbonati e non dei teatri dell 'ETI (a proposito di nemesi storica!). Allora, come si vede, la politica non basta e la satira potrebbe scivolare fino alle caricature glutinate dei "Biberon" televisivi, da Fo giustamente aborriti. Il Messaggio ha da diventare Discorso e qualcuno dovrà pur interpretare quella "alternativa" che non si può più supporre o delegare in platea. Ma oltre al personaggio vanno aggiunte - sempre al 'positivo' - le situazioni: le allusioni vanno materializzate perché la didascalia prenda corpo. E così la Strega si incarica del miracolo impossibile di condurre .il dramma dentro la farsa, di spiegare la vita dentro la scena, di conciliare la "linea di condotta" con i lazzi ininterrotti di un Arlecchino per davvero servitore di due.padroni. Forse anche per questo la comicità si affida e si rifugia nel ritmo, ma nonostante tutto non sconfigge il disagio, quando per la porta centrale del personaggio "politico" si fa entrare in scena la realtà tragica dei problemi che si dovevano soltanto nominare (ed era già troppo). Non si può continuare a far entrare la Realtà dalla "Comune", quando non resta che la forza di una farsa per controllarne l'uso e orientarne il senso. Né si tratta certo di una raccomandazione a evitare temi difficili, ché in teoria e in scena tutto è lecito, ma di un'invocazione alla cautela prima di rappresentare o esporre situazioni problematiche e drammi che necessitano di approfondimenti maggiori o, a scelta, di maggiori delicatezze (non leggerezze). Né si vuole dubitare che personalmente gli attori o gli autori abbiano attraversato e misurato consapevolmente le tragedie reali di cui trattano.,ma la stessa chance non viene certo offerta · allo spettatore, nemmeno in chiave umoristica. Lo spettatore, a seconda dei bocconi, ride e digerisce come un consumatore o digerisce e ride come un coccodrillo (se i coccodrilli andassero a teatro). Allora, come si vede, la "provocatorietà" diventa genere. Non che non abbia senso, ma non ha più direzione (oltre alla sua minima efficacia in tempi come questi in cui le vignette più pesanti dei disegnatori satirici sembrano l'oggetto privilegiato di collezione dei politici e a malapena non sono ancora usate per la loro propaganda). Non si dirige contro il Potere dunque, ché non ci arriverebbe nemmeno, ma non colpisce più nemmeno inplatea. È noto che non ci sono più borghesi nel teatro borghese. E tantomeno ci vanno i proletari, se non mescolati alle gite scolastiche delle Università della Terza Età. La classe, che non è mai stata acqua, è divenuta aria e la stanno evitando anche i sociologi. In platea siedono compostamente e ben disposti quelli che vogliono vedere il teatro di Fo perché lo hanno già scelto, preselezionato e talvolta predigerito. Non si tratta•più di mettere a confronto o a conforto la propria opinione su qualunque tema venga trattato in scena. Sanno come la pensa la compagnia e a loro volta sanno come devono pensarla durante lo spettacolo: le vere opinioni,· ammesso che ne siano rimaste molte, restano fuori dalla porta e dalla poltrona. 1 I casi sporadici di tardivi rigetti e allarmi e denunce, servono solo a consolare gli autori-attori del loro coraggio speso altrimenti
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