Linea d'ombra - anno VIII - n. 47 - marzo 1990

IMAN GUAYASAMIN José Maria Arguedas a cura di Natalia Giannoni José Maria Arguedas è probabilmente l'autore peruviano che meglio esprime le contraddizioni e le tensioni di una società fondamentalmente dicotomica dal punto di.vista etnico-culturale. Nelle sue opere il mondo andino, conosciuto dall'interno attraverso una personale esperienza di emarginazione che ci pone al sicuro da pericolosi "esotismi", rappresenta la resistenza dei valori autoctoni soffocati dall'invasione colonialista ispanica. Tuttavia in Arguedas è permanente l'intento unitario nei confronti delle due sfere culturali che formano la realtà peruviana. Poco prima di suicidarsi, nel 1969, cos~saluta colleghi ed amici:" ... la mia vita non è staia mutila. Salutate in me un periodo del Perù. Sono stato felice tra lagrime e sofferenze perché sono state per il Perù, sono stato felice con le mie debolezze perché sentivo il Perù in quechua e in castigliano". L'opera poetica di Arguedas, scritta in quechua e poi tradotta in spagnolo, è rimasta in ombra rispetto alla sua produzione di romanziere ed etnologo. La poesia Che Guayasamtn (Irnan Guayasamfu. , in quechua), è un omaggio al pittore equatoriano Oswaldo Guayasamfo. Di essa non si conosce la data precisa ma probabilmente è stata scritta tra il 1964 e il 1965. José Maria Arguedas concluse l'originale in lingua quechua, non ne terminò però la traduzione spagnola che fu poi completata da Jesus Ruiz Durand. Nella poesia le rivendicazioni di giustizia specificamente andine, espandendo i propri confini culturali, giungono all'incontro con altre realtà d'oppressione geograficamente lontane ma emozionalmente vicine ad Arguedas, che le coniuga al termine della poesia in un linguaggio di solidarietà universale. Il titolo Che Guayasam(n, laconico e indecifrabile, si specifica e si chiarisce nel corpo stesso del poema, prima con esortazioni che esprimono un'esigenza di giustizia e poi attraverso una trasformazione ortografica del nome stesso del pittore ("Wayasamin è il suo nome") del quale rivendica in tal modo le radici autoctone; segue poi una serie di identificazioni tra il pittore e immagini pienamente andine. Ma i confini nazionali vengono superati e il grido dei popoli d'America Latina si unisce a quello di altri popoli e continenti. Arguedas pur rivendicando la pienacittadinanzaautactona per Guayasaminne fa però un testimone e un messaggero universale. Arguedas ripropone la propria posizione ideologica anche nella poesia Appello ad alcuni Dottori. È un'esortazione rivolta ai "dottori", sinonimo d'una casta intellettuale che, senza conoscerlo, vuole prendere le distanze dal mondo andino, disprezzato e gh1dicato arretrato. Anche in questo caso l'autore esprime un severo giudizio e una ferma analisi, e tenta di operare un'integrazione andina.· Le opere di Arguedas. vengono pubblicate in Italia dalla casa editrice Einaudi, che ringraziamo. Che Guayasamin Da quale mondo, Guayasamin, si alza la tua forza? Colomba che castiga Sangue che grida. Da quali tempi nacquero i tuoi occhi che scoprono i mondi che non si vedono? le tµe mani che incendiano il cielo? Ascolta, ardente fratello, il tempo del dolore, dei giorni che feriscono, della notte che causa pianto, dell'uomo che divora uomini, per l'eternità lo fissasti in modo che nessuno sarà capace di rimuoverlo, lo lanciasti non sappiamo fino a quàli confini. Che pianga l'uomo che beva il dolcissimo alito della colomba che divori il potere dei venti, il tuo nome. Wayasamin è il tuo nome; il clamore degli ultimi figli del sole, il brivido delle sacre aquile che sorvolano Quito, i loro pianti, che accrebbero le eterne nevi, ed oscurarono àncor più il cielo. Non è solo questo: la sofferenza degli uomini in tutti i popoli; Stati Uniti, Cina, il Tawantinsuyo, (I) tutto ciò che rivendicano e cercano. Tu, ardente fratello, griderai tutto questo con voce ancor più potente e incontenibile dell' Apurimac. (2) Va bene, fratello, va bene, Oswaldo. Note . 1) Antico nome dell'impero incaico. 2) Fiume del Perù il cui nome quechua significa "Dio che parla". Appello ad alcuni Dottori A Carlo~ Cueto Femandini e John Murra Dicono che non sappiamo più nulla, che siamo l'arretratezza, che ci devono cambiare la testa con un'altra migliore. Dicono ché neppure il nostro cuore è adeguato ai tempi, che è pieno di timori, di lacrime, come quello della calandra, come quello di un gran toro da sgozzare; che perciò è inopportuno. Dicono che alcuni dottori affermano questo di noi; dottori che si riproducono nella nostra stessa terra, che qui ingrassano o che diventano crumiri. Che parlino pure; che pettegolino, se questo a loro piace. Di cosa è fatto il mio cervello? Di cosa è fatta la carne del mio cuore? I fiumi corrono ruggendo nella profondità. L'oro e la notte, l'argento e la notte temibile formano le rocce, le pareti degli abissi · dove il fiume risuona; di quella roccia sono fatti la mia mente, il mio cuore, le mie dita. Che cosa c'è sulla riva di quei fiumi che tu non conosci, dottore? Prendi il binocolo, i tuoi migliori occhiali. Guarda, se puoi. Cinquecento fiori di tuberi diversi crescono sui balconi degli abissi che i tuoi occhi non raggiungono, sulla terra dove la notte 49

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