Linea d'ombra - anno VIII - n. 46 - febbraio 1990

T E A T R0 O La discesa indica e giustifica una collocazione al proprio livello (e la parola non sta a indicare per forza l'altezza, ma anche la propria funzione e identità): si tratta di mantenere senz'altro le aspirazioni ma in equilibrio con le necessarie coerenze. La discesa si oppone all'ansia della carriera, all'ambizione di un avanguardismo estetico, alla sperimentazione come creazione di moda, all'ideologia dell'arte. Lavorare in discesa certo ridimensiona anche il personale obiettivo, nel senso che non lo individua più in verticale ma lo pone in un orizzonte magari in declino: ci si trova cioè davanti alla fatica di dover costantemente separare il proçlema del senso da quello del successo, e ancora di ritrovare il ruolo e lo spazio di un teatro minore, nonostante la oggettiva e innegabile classifica dei valori. Occorre trovare una sana relazione professionale ed etica con i maggiori e i migliori, senza negare la possibilità e l'utilità del proprio lavoro. La discesa è una pratica difficile, non è un alibi: anche se ci salva dal dichiarare fallimento tutte le volte che non si trova il modo di raggiungere, o di superare (o più facilmente di snobbare) i vertici dei più bravi e più grandi e perfino dei maestri della propria arte, comunque si fallisce tutte le volte che non si indovina la strada in cui si può trasformare in contributo esterno (culturale) una personale e impegnativa esperienza (teatrale). · Qualche autodidatta scontento si è rimesso a studiare-anche nel significato latino di "desiderare"-, invece di continuare a compiacersi, meravigliato e orgoglioso, di diventare sinonimo di incompetente; si è ricordato che la sua emarginazione non era svogliatezza ma contestazione dell'istituzione (scolastica e teatrale) e rifiuto dei suoi stessi obiettivi. E i progetti sono tornati a chiamarsi "Prove", "Soglie", "Modelli", "Studi", ecc. Hanno ricominciato a contrapporsi alla produttività a tutti i bassi costi, a riguadagnare (e pagare) lo spreco .dello spazio e del tempo, ad allargarsi verso le alimentazioni e le digestioni fuori dal teatro per ritrovare il filo delle "cose da dire", ad occuparsi perfino con esagerazione dello spettatore, del polo cioè che rischia di rendere irreversibile, insieme alla propria, la crisi dell'attore. Lo "studio" sta sostituendo in umiltà il più ambizioso "laboratorio" di qualche tempo addietro. Non solo intende rispondere alla lamentata mancanza di scuola, o alle insufficienze delle tante attraversate pedagogie: sta diventando un ambito essenziale e continuo del proprio lavoro, un termine sostitutivo del più presuntuoso e infine più facile "esperimento". Studiare rimette i ruoli e le ambizioni al proprio posto, riapre le possibilità e i doveri di una generazione - intermedia - di "studenti", mentre ridona a questa figura una dignità e un destino meno transitorio di quello che si voleva credere. Studiare riapre anche i rapporti con le scuole vere, piene di pubblico giovane; diversamente da "animare" non promette miracoli o terapie, ma cerca complicità nell 'impegno, nella fatica. A Modena, presso il Teatro San Geminiano, Alessandro Tognon coordina le "Prove": le sue e, in successione, quelle di altri tre attori e registi che hanno a disposizione uno spazio di ospitalità di uri mese per lavorare e riflettere su cosa e con chi vogliono; non importa se non si procede verso uno spettacolo e non si è obbligati a nessun esito, salvo un colloquio iniziale e un confronto finale con un esiguo gruppo di spettatori-interlocutori, che a loro volta fanno le prove del proprio lavoro di attesa e di motivazione. Fra gli attori che vi prendono parte e posto, Silvia Pasello è ormai quasi al termine di un anno di "studio" personale dedicato all'attraversamento e messa in scena di un testo di Dostoevskij, sul quale ha organizzato un confronto di intimità e di professionalità a tutto campo: drammaturgia, regia, recitazione, scene e tecniche di realizzazione, dialogo con spettatori nelle varie fasi di trasformazione del lavoro. Non per improvvisarsi competente o invadente dei differenti "mestieri", ma per ricostituire la coscienza della loro unitarietà all'interno di una esperienza teatrale di attrice, contro la abitudine a lasciarsi sottomettere da ruoli e funzioni contrastanti e specializzarsi come utile ed abile "ignorante" di teatro. Sul fronte della "scuola" propriamente detta, c'è da ricordare almeno l'impegno di Francesco Torchia e degli altri dello Studio 3, da anni autori e coordinatori di uno dei progetti per "spettatori" -studenti delle scuole medie superiori- più seri e convincenti; la continuità di un impegno fatto di spettacoli, conversazioni ed esperienze sulle quali si è andato accumulando il lavoro scolastico di tre anni da parte di decine di alunni e professori sempre delle stesse classi, ha per davvero costruito attenti e motivati spettatori. Nel mare delle irregolari proposte "pirata" che rappresentano la media e la media superiore della forzosa relazione fra teatro e scuola, è più che insolito imbattersi nel disegno intelligente e nel metodo rigoroso di una proposta pensata davvero per gli utenti, non subordinata al fine - pure prezioso - della propria sopravvivenza, non esaurita nelle colorate e stupefacenti banalità da teatroragazzi a fini di lucro. Anche la "scuola per attori" può raggiungere risultati che servono d'esempio, e senza scomodare l'unico eccellente e noto caso - nel contesto delle istituzioni ufficiali - della Civica Scuola d'Arte Drammatica di Milano, diretta da Renato Palazzi. Più in provincia e quasi in campagna, Luisa Pasèllo e Stefano Vercelli hanno dedicato l'estate a un gruppo di giovanissimi di Pontedera, che hanno messo in scena uno degli spettacoli più divertenti dell'anno (ed è allora possibile, come dimostrano da tempo i corsi milanesi di cui sopra, che i "saggi scolastici" possano eguagliare e sostituire molta sperimentazione, quando i registi e gli attori hanno "studiato" per davvero). E messi così per iscritto, molti potranno dire di cento altri che progettano, studiano, mettono. in moto dinamiche altrettanto interessanti, se non apparentemente identiche. E può darsi che sia facile preconizzare una sorta di ennesima "tendenza", ma le eccezioni che abbiamo nominato restano tali (anche se speriamo non restino sole); non sono cioè fatte soltanto di intenzioni e di copertine, ma di una qualità e serietà di lavoro che va oltre la corrente e ricorrente "progettualità". Bisogna infatti verificare come e perché si studia, verso quale direzione e ambizione si muovono i "progetti". I processi sono ancora una volta più importanti dei risultati, e questi ultimi del resto non sono così facilmente visibili e misurabili: il teatro minore non lascia segni evidenti sulla cronaca stampata della critica, e nemmeno intende lasciare un segno nella Storia. Spesso anzi le persone e le iniziative che regalano qualcosa alla vita di sè e degli altri, mentre si occupano o si preoccupano del teatro, sono ignorate o valutate come inconcludenti. A questa inconcludenza vogliamo rendere omaggio. E fare dei nomi non vuole significare un maldestro tentativo di promozione o propaganda per gruppi o persone, ma solo un ringraziamento per il loro lavoro; e forse una segnalazione di esperienzedi cui si è certi, perché testimoni -, può essere utile per quanti vogliono copiare progetti, informarsi su come si studia, imparare come si fa a regalare qualcosa. A Verona un pomeriggio di inverno un genitore apre la porta di uno strano garage, sceglie con cura in uno scaffale portabagagli una valigia e se la porta a casa. Dentro vi troverà un piccolo . teatrino, un gruppo di marionette, le istruzioni per l'uso e il copione di una favola moderna a sfondo ecologico. C'è una "Ludoteca delle Valigie-Teatrino",curata dal Centro Ricerca Espressione Ambiente (CREA) diretto da Marco Scacchetti: un giovane intermedio che è ancora convinto di attraver89

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