SAGGI/SILLITOE Vendere molte copie non significa essere uno scrittore eccellente. Venderne poche non significa essere uno scrittorefallito. scritto. Naturalmente ho sempre desiderato che le cose andassero in questo modo, anche se a un altro livello scrivevo solo per soddisfare me stesso. Era questione di trovare la mia voce, e mi ci volle molto tempo per farlo. Ma non potrebbe esser vero che in tutti quegli anni stavo inconsciamente assorbendo quello che il pubblico avrebbe trovato accettabile - in altre parole, che la ragione per cui mi ci volle tanto tempo a trovare la mia voce fosse perché non avevo ancora scoperto quella che mi avrebbe fruttato un po' di denaro? Quando finii Sabato sera, domenica mattina, nell'agosto del 1957, dopo cinque anni di lavoro a Majorca, mandai il manoscritto al mio agente di Londra, sicuro che qualcuno l'avrebbe pubblicato. Un editore lo rifiutò senza spiegazioni. Il secondo spiegò, nella lettera con cui lo rifiutav,a, che la vita della cosiddetta classe operaia così come l'avevo descritta era completamente falsa, e che avrei dovuto riscriverla tenendo presente questo. (L'avevo già riscritta otto volte.) Un terzo lettore qisse che se avessi cambiato il finale avrebbe anche potuto prendere in considerazione favorevolmente il romanzo. Rifiutai questa offerta, anche se ero molto scoraggiato. Un altro redattore voleva che accorciassi il manoscritto. Gli suggerii di allenarsi a un esercizio che lo avrebbe se non altro messo in grado di guadagnarsi da vivere come contorsionista, anche se il suo numero sarebbe stato senza dubbio censurato-a quel tempo. Con tante diverse opinioni, come non pensare che solo quella dell'autore importasse? Il romanzo non mi sembrava per nulla insolito, anche se era speciale per me. Non era un'opera prima. Ne avevo già scritti sei o sette, che non consideravo più abbastanza buoni per essere pubblicati. Il primo, scritto a Nottingham dopo quattro anni nella RAF, contava più di quattrocento pagine, ed era stato steso in diciassette giorni. Quello di cui difettava in tecnica, veniva compensato in energia e verbosità. Avevo usato dieci aggettivi dove ne sarebbe bastato uno, avevo infilato molte volte la stessa parola in una pagina, mi ero ripetuto spesso, avevo creato un protagonista coi capelli biondi e gli occhi scuri e a pagina quaranta l'avevo fatto diventare castano con gli occhi chiari. Avevo perso di vista la trama. Un personaggio investito e ucciso da un camion al1'inizio saltava fuori vivo e vegeto a pagina 100. La storia caotica veniva riportata ali' ordine solo alla fine, quando morivano tutti. Era un guazzabuglio vanaglorioso di Dostoevskij, Lawrence e Huxley-per fare solo qualche nome. Con la temerità dell'incoscienza giovanile, avevo mandato il manoscritto a Eyre e Spòttiswoode (mi pare), che aveva annunciato un concorso per opere prime. Mi era ritornato senza commenti. Dopo il servizio attivo nella RAF in Malesia, venni congedato con una pensione di invalidità che bastava per vivere in Francia e Spagna. Ogni mese il re (e in seguito la regina), mi mandava dei soldi che mi permettevano di continuare a scrivere i miei romanzi. Era una vita piacevole. Non avevo problemi a farmi mantenere. Quando mostrai a Robert Graves, che viveva ancora a Majorca, uno dei miei primi romanzi, fu abbastanza incoraggiante da dire che lo trovava interessante, ma aggiunse: "Dato che vieni da Nottingham, perché non scrivi qualcosa su quella vita?" Avevo già scritto dei racconti ambientati a Nottingham, e qualche mese dopo cominciai a mettere insieme una cosa intitolata The Adventures of Arthur Seaton. Mandai il primo capitolo a varie riviste ma, come ogni altra cosa, continuò a tornarmi indietro - come una palla di gomma lanciata contro una parete di cemento. Il romanzo che avevo portato a termine prima di cominciare Arthur Seaton, si intitolava The Palisade, e pensavo che avesse buone possibilità di essere pubblicato. L'ho riletto di recente, rimango della stessa opinione. Il racconto era basato su una storia vera che avevo sentito in un ospedale della RAF dopo il ritorno dalla Malesia. Ma nel 1956, quando cominciai a mandare il libro agli editori, un redattore capo mi disse che gli era piaciuto, ma che gli riusciva difficile credere che un'infermiera d'ospedale potesse lasciare la WAAF e andarsene con uno dei pazienti. Che genere di vita aveva condotto, quel signore, per pensare che una cosa del genere fosse impossibile? Forse, in definitiva, il romanzo non era buono, ma sono sicuro che quel redattore sapeva benissimo che cose del genere succedevano tutti i giorni. Sarebbe paranoico, naturalmente, chiamar questa censura. Era una questione di opinioni, niente di più. Forse se avessi mandato il romanzo a moltissimi editori qualcuno avrebbe potuto decidere di correre il rischio di pubblicarlo. Ma è _inutilefar congetture. Forse in quei giorni lontani gli editori pensavano di avere un dovere verso la società: certe cose potevano succedere, ma non andavano scritte. Albert Finney nel film di K, ReiszJratto da Sabato sera, domenica mollino ( 196 l ), 81
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