ILCONTESTO Fine· d'anno a Bucarest GianfrancoBettin 1. "Non è di questo che sono orgoglioso" dice Razvan. "Troppa distruzione" aggiunge. Mostra, intorno, piazza del Palazzo, il centro di Bucarest. L'aria brucia dell'odore di spari, di incendi, degli scarichi dei carri armati col motore acceso fermi a presidio. Il vecchio Palazzo Reale ha lunghe severe facciate annerite, e grandi finestre senza più vetri dove pendono, smosse dal vento, lunghe tende bianche strappate, la libreria Nazionale è ridotta a un cumulo di macerie. Di fronte, il Palazzo del Comitato Centrale del Partito Comunista ha l'aspetto di un tetro castello appena conquistato. Fa un certo effetto aggirarvisi dentro, tra i segni recenti di scontri furibondi, segni di fumo e di fuoco, tra carte, sedie, tavoli e armadi rovesciati, bossoli sparsi, e accampamenti di soldati improvvisati nelle grandi sale di marmo. "Troppa distruzione" ripeteRazvan guardando intorno. Ha 25 anni, ed era qui quando tutto è incominciato, la sera del 21 dicembre. Era andato alla manifestazione ufficiale convocata da Ceausescu per "ristabilire la verità" sul massacro di Timisoara, imputato a "teppisti e terroristi pagati da potenze imperialiste", e per vedersi confermare l'appoggio del popolo. "Avevo saputo la verità su Timisoara da RadioFreeEuropee da VoiceofAmerica, come tanti. Ma non avevo molta speranza che le cose cambiassero. Ero indignato, ma senza speranza. Avevo in tasca una lettera, quella sera. Dopo il raduno l'avrei consegnata all'ambasciata americana. Era il primo passo per tentare di andarmene da questo paese". Invece le cose sono cambiate, improvvisamente. Gli studenti hanno osato la sfida. La gente è stata prima a guardare quel confronto impari: studenti e Securitate che si fronteggiavano in piazza, con l'esercito fermo, incerto. Poi, negli scontri, la gente non si è tirata indietro. "Ecco, di questo sì che sono orgoglioso" dice Razvan, che ha una ferita alla testa. Poteva essere un'altra Tien An Men. Lo è stata, quanto ai morti e aiferiti, certamente migliaia. Solo in un cimitero improvvisato alla periferia di Bucarest ho contato più di cinquecento fosse e, in una notte trascorsa in un ospedale, ho incontrato molte decine di feriti e sentito i calcoli dei medici sulle vittime già . censite (centinaia solo lì). Non ha molto senso la contabilità precisa invocata fuori di Romania. È vero, nei primi giorni giravano cifre tremende: sessantamila morti, cinquantamila. Anche per Tien An Men era andata così, e inoltre l'esito era stato di sconfitta. Ma poi: le otto-diecimila vittime del Natale romeno pesano davvero meno di quelle inizialmente stimate? Le dimensioni della tragedia risultano così inferiori? Solo per chi ha bisogno di rifarsi a una logica da "Guiness dei primati", forse. Le ore e i giorni di Timisoara e di Bucarest e delle altre città, villaggi, province romene sono state ore e giorni di grande tragedia comunque. Dopo Natale, quando Bucarest era più facilmente accessibile si vedevano arrivare in città gruppi e delegazioni dell'interno del paese. Portavano aiuti - frutti poveri della povera economia soffocata dalle priorità imposte da Ceausescu - e volevano vedere cosa stava accadendo, volevano esserci. Portavano anche notizie di quanto era successo fuori dal raggio d'azione delle telecamere che, dalla libera TV romena, trasmettevano al mondo le immagini dell'insurrezione. Ed erano altre notizie di morti, di rappresaglie, di resistenze dei fedeli di Ceausescu. Di vendette, anche. 4 2. Nel tardo pomeriggio del giorno di Natale, attraversando il grande ponte sul Danubio tra Ruse e Giurgiu alla frontiera tra Bulgaria e Romania, eravamo entrati nel Paese in rivolta. Al posto di confine, in un clima di estrema tensione, stavamo espletando le formalità di passaggio, quando la musica trasmessa dalla radio ·romena, accesa a tutto volume dalle guardie, si è interrotta d'improvviso. Una voce grave ha letto il comunicato che annunciava la conclusione del processo militare ai coniugi Ceausescu e la loro avvenuta esecuzione. Un grande applauso si è levato subito dai soldati, in un'onda di cupa allegria. La gente ha voglia di esprimersi - veni va da pensare in quei giorni - di raccontarsi; e ha anche voglia di giustizia e di vendetta. Ho visto la registrazione del processo, e delle immagini di Nicolae e Elena Ceausescu morti, insieme a un gruppo di romeni. Insulti, irrisione, felicità alla vista dei due cadaveri, hanno accompagnato costantemente la trasmissione. In una strada di Bucarest, davanti al Ministero della Difesa, tra auto e jeep squarciate da colpi di cannone, c'erano i corpi di alcuni "securisti". Erano dilaniati, sventrati, a pezzi. La testa di uno, mozzata, era appoggiata su una ruota di una jeep rovesciata e posta di traverso. I bambini sputavano sui cadaveri, la gente si fermava, rideva, guardava senza pietà la scena. È forse inevitabile tutto questo, specie nei giorni della guerra e degli agguati. È il nucleo di dolore e di crudeltà, inestirpabile, deposto dalla tirannia nel fondo del cuore e della storia di un popolo. Un fondo di rancore, anche, che forse assumerà forme meno feroci ma non meno drastiche nel corso della nuova stagione politica, delle lotte che di sicuro si apriranno - che già divampano, anzi - sugli assetti futuri del Paese. I sentimenti, e i risentimenti, fanno spesso la storia. La politica ne è spesso oggetto, anche se tenta sempre di confinarli, di dominarli con una ratio che si pretende superiore. Ma quando la politicapur armata del potere di uno stato poliziesco - viene travolta da ciò che aveva a lungo soffocato, anche una nuova politica fa molta fatica a imporsi, a incontrare fiducia e credibilità. Per questo Gorbaciov misura non nel mondo intero, che lo acclama, ma nel proprio immenso paese, le asperità del cammino da fare, le diffidenze, le esasperazioni, l'emergere esplosivo di radici e caratteri che l'impero sovietico aveva immurato. La rivoluzione romena, che ha sfondato i cancelli della reggia di Ceausescu, non si accontenterà di guardare indignata e stupefatta le ricchezze e i tesori (sottratti ai musei nazionali) accumulati dal Conducator e dalla sua famiglia. Restituirà il tutto al Paese, ma si guarderà poi intorno. Sfratterà il Museo del partito dal vecchio prezioso palazzo che occupa e vi ripristinerà il Museo nazionale etnografico. Ma chiederà anche conto delle complicità, di chi sapeva e taceva nei lunghi anni della dittatura, e magari oggi siede nel nuovo potere. Chiederà di ricominciare tutto. A volte, di sicuro, non per andare più avanti, ma per tornare indietro, a prima del comunismo. E non sarà facile frenare questa tendenza. Il regime comunista si era dipinto come futuro, utopia in corso d'opera, fine della storia, età dell'oro finalmente sopraggiunta. Da quale momento si riparte, ora che la volgare, pietrosa, polverosa storia è ricominciata? Ora che la storia di carne e di sangue, di sentimenti e risentimenti, di conflitto e di dialogo, torna a pulsare?
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==