La pacesecondo il Nobel Ermanno Vitale Tutti i premi - da quelli apparentemente più futili attribuiti alla bellezza o all'eleganza agli altri, più seriosi, che consacrano la fama di artisti, letterati e scienziati-rivelano, soprattutto se guardati retrospettiv ~ente, da un lato, la loro assurdità, dall'altro, il loro essere un vivido segno dei tempi. Piccoli e grandi intrighi per favorire candidati tanto incolori quanto politicamente opportuni o la convenienza di approdare a soluzioni "diplomatiche" inducono spesso la giuria a trascurare i valori, quali che siano, da premiare ma proprio per questo sono appunto indicatori precisi di un'epoca, dei suoi pregiudizi e delle sue contraddizioni. Il premio Nobel per la pace non costituisce un' eccezione. Anzi, invirtù della sua evidente valenza politica immediata e del suo tasso privilegiato di arbitrarietà (sarà comunque difficile premiare la signora Thatcher per la bellezza, per la pace ... chissà!), questo Nobel sembra esaltare tali caratteristiche fin dal momento della sua istituzione (1901). È quanto si evince dal saggio di Giuliano Procacci (Premi Nobel per la pace e guerre mondiali, Feltrinelli, MilaJ).o 1989, pp. 179, Lit. 27.000), che segue le sorti del premio fino alla conclusione della seconda guerra mondiale, ritraendo con mano abile ed . esperta le figure dei laureati (compresi quelli mancati) e delineandone il pensiero e le posizioni prese di fronte agli eventi bellici che funestano ininterrottamente quegli anni. Interessante e contraddittorio è anzitutto il personaggio di Alfred Nobel, le cui "convinzioni pacifistiche" si possono ben comprendere da quanto scrive all'amico Schneider Bonnet: "la pace perpetua '<iicui ha parlato Kant Tolstoj con la nipote Tania (1909). 34 sarà preceduta dalla pace dei cimiteri". Anche all'amica pacifista Bertha von Suttner, che lo .spinse ad istituire il premio per la pace, non nascondeva le sue propensioni per l'equilibrio. del terrore considerato più sicuro di ogni ridicola ipotesi di disarmo. Un caso di mecenatismo davvero singolare, perfettamente coerente, tuttavia, con buona parte della storia del premio, che vede numerosi laureati, in nome dell'imperante nazionalismo, compiere clamorosi voltafaccia, omettere denunce moralmente obbligate e fmanco dichiarare apertamentenelle proprieNobelLectures il valore molto relativo della pace, sicurame:nte subordinato a quello della patria. Si pensi a Ernesto Teodoro Moneta, Nobel italiano per la pace nel 1907, che in occasione della guerra di Libia in un crescendo di esaltazione patriottica, giunge a dichiarare che "nessun esercito del mondo sa dare uno spettacolo si eroicamente bello, di una forza così sicura, come l'esercito italiano" e quanto sia ineluttabile la "sottomissione dei popoli ancorabarbari ai popoli civili": o adun altro più celebre Teodoro, Roosevelt, insignito nel 1906, il quale, nel corso della prolusione tenuta nel 1910, non manca di sottolineare che "la pace è un bene generale in se stessa, ma non è il più alto dei beni a meno che non sia l'ancella della giustizia", interpretando questa clausola nel senso che "nessun uomo è degno di essere chiamato uomo se non è pronto a combattere piuttosto. che sottomettersi all'infamia o ad assistere alle sofferenze di coloro che gli sono cari. Nessuna nazione merita di esistere se acconsente a perdere la sua fortezza e virilità". Altrettanto sconcertanti quanto sintomatiche appaiono le esclusioni e le attribuzioni ritardate. Il primo è il caso di Tolstoj, il cui pacifismo radicale, che contemplava un'intransigente obiezione di coscienza, presentava insopportabili caratteri anarchici e sovversivi e dire che sarebbe forse bastato fare come Nathan Soderblom, arcivescovo di Uppsala premiato nel 1930, ovvero riconoscere, accanto all'incompatibilità tra guerra e spirito cristiano, che l'obbligo di conformarsi a quest'ultimo vigeva solamente quando fosse stato operante "un sistema legale sovranazionale". Dubbi e perplessità sul caso Tolstoj e sulla differenza che passa tra una guerra europea e una coloniale costarono alla stessa von Suttner, ideatrice del premio, un'attesa di qualche armo (1905). Si sa, è inutile recriminare, questa è la storia di tutti gli allori: dal festival di Sanremo ai più illustri premi Nobel le attribuzioni suscitano dubbi, discussioni e dissensi. Permane tuttavia un'anomalia, per così dire, di natura teorica nella designazione del Nobel per la pace. Intrighi aparte, nei premi ingenere risulta almeno chiaramente stabilito per quali opere o requisiti si dovrebbe risultare vincitori: ma quali sono le opere o i requisiti che dovrebbero essere premiati con il Nobel per la pace? Giova di più alla costruzione della pace chi si trova a contribuire temporaneamente alla sua causa per prudenza o necessità politica, senza spiccato convincimento ideale o chi, con 1e parole e soprattutto con gli atti, testimonia coerentemente il proprio pensiero pacifista? Sembra riproporsi la nota dicotomia weberiana fra etica delle conseguenze ed etica delle intenzioni. Dal 1914 in poi, il Comitato di Oslo, nell'attribuire il premio, si è ispirato sempre più alla prima; e Procacci pare prenderne atto con qualche soddisfazione: "ciò presuppone, se non l' abbandono, certo un drastico ridimensionamento del concetto tradizionale di pacifismo inteso come idealità e predicazione e l'adozione per contro di un approccio realistico; non più l'abolizione o la denuncia della guerra, ma la prevenzione di essa che si persegue attraverso, appunto, il lavoro politico" (p. 144). D'accordo: ma sarebbe bello che, per una volta, i giudici ricercassero e premiassero un umile soldato che, in,qualche landa desolata del pianeta dove si combattono ancora le guerre dimenticate dal lavoro politico, ha rifiutato di imbracciare il fucile. A meno che non si tema per la prosa e l'oratoria dell'eventuale Nobel Lecture.
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