Linea d'ombra - anno VIII - n. 46 - febbraio 1990

I viaggi di Naipaul Paolo Bertinetti Continua la proposta "italiana" di Naipaul. Dopo l'ultimo romanzo, L'enigma del 'arrivo, e il suo libro più significativo, Una casa per il signor Biswas, di cui già abbiamo avuto occasione di parlare su questa rivista, la Mondadori ha fatto uscire qualche tempo fa Il massaggio mistico (che è il primo romanzo) e ora Alla curva del fiume e Nel Sud. Ricordiamo rapidamente che Naipaul, uno dei maggiori scrittori viventi di lingua inglese, è nato nell'isola caraibica di Trinidad, popolata per un terzo dai discendenti di quegli indiani che vi erano immigrati nel primo Ottocento a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Naipaul, indiano dei Caraibi, abbandonò in gioventù l'isola e la comunità in cui era nato, che considerava come luogo di schiavitù, intriso delle norme e dei valori "morti" del mondo indiano (morti nel senso in cui potevano esserlo quelli degli italiani emigrati a Little Italy), per fuggire e vivere nell'Inghilterra sognata come luogo della libertà e della creazione artistica. Ma anche l'India "viva" fu poi oggetto di delusione e di rifiuto, come dichiara il suo libro del 1977, India. Una civiltà ferita. È a questo proposito che si parla di "doppio esilio" di Naipaul. Ma si tratta di un esiliarsi frutto di una scelta culturale, emotiva e intellettuale al tempo stesso. Per altri membri della diaspora indiana, come il Salim di Alla curva del fiume, può essere il frutto di una necessità terribile, imposta dalle persecuzioni, dal sopruso e dalla violenza. S alim, nato in una comunità indiana sulla costa orientale dell'Africa, non può considerarsi indiano, come dimostra l' episodio che si svolge ali' ambasciata dell'India a Londra. Ma non è neppure africano; e tutto quello che sa sulla storia del suo popolo l'ha letto "su libri scritti in Europa". Il romanzo narra le sue vicissitudini, l' abbandono della costa e il lunghissimo viaggio all'interno dell'Africa, fino alla curva del grande fiume, lo stesso Congo di Cuore di tenebra, che rappresenta un esplicito riferimento letterario per come il narratore, add_entrandosi nel cuore del continente, scopre se stesso nel confronto con la realtà altra di un'Africa ancora altrettanto misteriosa e violenta, sia nella natura che negli uomini. Ma oltre che al Marlow di Com ad, Salim, come dice Claudio Gorliernella prefazione, è anche simile a un Robinson Crusoe, che approda sulla riva del fiume per "costruirsi un universo personale e individuale di fronte alla crisi della società comunitaria da lui abbandonata quasi dopo un naufragio". Non ci riuscirà. Il romanzo è un ritratto scorato e profondamente negativo del postcolonialismo. L'Europa ha lasciato soltanto un vuoto in cui si instaurano regimi autoritari e le armi con cui più rapidamente tali regimi costruiscono nel sangue il loro potere. Restano gli antichi odi tribali, resta lo scatenarsi primitivo CONFRONTI della violenza. Per Salim la salvezza consisterà nella fuga. Per gli africani non ci sarà né salvezza né speranza. Questo giudizio così drastico sarà poi mitigato da Naipaul in scritti successivi. E tuttavia bisogna riconoscere che in Alla curva del fiume esso ha la forza che gli viene dalla cronaca, anche se non da una visione della storia che si possa condividere. A tutt'altro genere appartiene l'ultima fatica di Naipaul, Nel Sud (trad. di Marco Papi, Mondadori, pp. 380, L. 29.000), un libro di viaggio e indagine come quelli sull'India e sui paesi islamici di qualche anno fa. Naipaul, da primavera a fine estate, viaggia negli stati del profondo Sud americano e ci racconta i suoi incontri, il paesaggio, il clima, la musica, i pregiudizi di una parte grandissima e rivelatrice degli Stati Uniti, regolarmente ignorata e colpevolmente sconosciuta ai nostri esperti che ·discettano di America dai loro appartamenti di Manhattan scopiazzando da giornali scritti in una lingua (l'inglese) che dopo anni ancora conoscono malissimo. Naipaul scrive con il taglio giornalistico della miglior tradizione anglosassone, cioè leggibile, pieno di personaggi e aneddoti, ma rigorosamente documentato e di prima mano (infatti il libro è la rielaborazione degli articoli scritti per il supplemento settimanale del miglior quotidiano inglese, 'Tue Independent", un supplemento bellissimo per contenuti e veste grafica, da far vergognare "Repubblica" e "Corriere"). Inizialmente Naipaul pensava che il tema principale sarebbe stato quello della questione razziale. Ma, ferma restando la sua importanza, presto scopri che "l'argomento sarebbe diventato quello dell'altro Sud, quello dell'ordine e della fede, della musica e della melanconia" (p. 34 ). E, anche se non lo dice qui, ma lo spiega benissimo più avanti, quello della memoria della Guerra Civile. Il senso del passato, del radicamento nella loro terra della gente·del Sud (paradossalmente anche dei negri, i cui avi vi ci furono portati come schiavi), la fierezza con cui vengono indicati i luoghi in cui la propria famiglia visse per generazioni, fanno tutt'uno con il ricordo della guerra contro gli yankees, contro il Nord industriale e brutale, che aprì una ferita tuttora non rimarginata. Questo già si sapeva, come pure si sapeva a quali risvolti reazionari questo atteggiamento si accompagni; ma è egualmente sorprendente il modo in cui lo riscopre Naipaul, mostrandoci la fona che quei sentimenti continuano ad avere e il loro coesistere con un senso di civiltà sconosciuto nel resto degli Usa. E già si sapeva della musica, di quella negra e di quella bianca, di Elvis Presley e di Nashville; ma anche qui ci sono delle vere sorprese che ci fanno riscoprire con lui come la musica country sia il "precipitato" di tutta una cultura specifica assai spesso travisata o malintesa. Le pagine più sorprèndenti per il lettore non americano, tuttavia, sono quelle dedicate alla religione. Il Sud è dominato dai battisti, ma ampio spazio hanno anche predicatori e Chiese di ogni tipo ("le varie chiese occupano dodici pagine dell'elenco telefonico" di Nashville). Ma ancor più impressionante è l'importanza del sentimento religioso, la sua presenza nella vita di ogni giorno, nelle scelte più importanti come negli atti più banali. Vecchi, giovani, uomini d'affari, cameriere, agricoltori e uomini politici, parlano di visioni, di illuminazioni, di dialoghi con Dio con un linguaggio e una convinzione che noi potremmo associare soltanto a qualche fraticello di un eremo sperduto. È "un'ossessione quasi indiana" perla religione che fa dire a Naipaul di non aver mai incontrato in nessun altro posto- del mondo persone così permeate dal principio di un'autentica vita religiosa. E fanno paura, se pensiamo di che cosa possono essere capaci i puri di spirito. Quei fondamentalisti non sono poi così diversi dai fondamentalisti islamici. In entrambi i casi, dice Naipaul, forse c'è lo stesso bisogno di sicurezza, la stessa necessità di proteggere la propria anima in un'epoca di grandi trasformazioni. Certamente c'è lo stesso fanatismo. Naipaul, appena può, lascia "le autostrade, che fanno sembrare uguali tutti gli stati", va per strade secondarie, sterrati, sentieri, in Georgia e nel Mississipi, nella Florida e nella Carolina. Intervista politici e predicatori, parla con la gente, interroga scrittori e commesse, va alla scoperta degli uomini e della loro terra. Così come fa nell'invenzione romanzesca di Alla curva del fiume, rispondendo a un compito essenziale della letteratura. Qualche tempo fa mi è accaduto di essere presente ai lavori di un convegno insolitamente interessante e stimolante, tenuto all'Università di Torino, sulla "Fine dei viaggi". Gli interventi conclusivi più lucidi e affascinanti sembravano quasi tutti dichiarare l'impossibilità del viaggio, del racconto di viaggi, nella narrativa e nell'epoca contemporanea. Il fascino delle argomentazioni era tuttavia sminuito, almeno per me, dal tono delle stesse, che mi ricordava i discorsi sulla fine del romanzo. E pensavo che sì, la critica è capace di costruzioni teoriche e di sistematizzazioni mirabili; ma che deve pur fare i conti con l'esistente. È stato allora che mi è venuto in mente il folgorante attacco di un saggio di Benjarnin. "Nella prospettiva dell'epica la vita è un 29

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