Galeano sembra innanzitutto divertirsi a sbeffeggiare i cretini, che sono la maggioranza dei suoi personaggi. Il primo è Colombo, che "impreca in genovese e scaraventa al suolo le lettere credenziali" (pag. 54) senza rendersi conto affatto di essere arrivato in un nuovo continente i cui abitanti non possono capire nessuna delle lingue parlate in Europa. Ma la condanna morale dei cretini è dovuta alle conseguenze delle loro azioni, che provocano un dolore inutile e senza riscatto: il fratello di Cristoforo, Bartolomeo Colombo, fa bruciare vivi sei uomini 'che hanno seppellito le immagini sacre cristiane (pag. 61) senza capire che non 1'hanno fatto per disprezzo delle divinità europee ma perché i nuovi dei rendessero fecondi i campi. La pietà di Galeano verso le vittime innocenti si collega alla dimensione tutta immanentistica della sua storia, in cui il dolore resta senza senso, non trova ripagamento né riscatto in nessun aldilà. Da qui la rabbia e lo sdegno che dominano la pagina. Ai cretini vengono contrapposti coloro che, quasi sempre impotenti, in posizione marginale rispetto agli eventi, comprendono il senso di ciò che avviene: Leonardo, per esempio, il primo a intuire, dalla lontana Italia, che Colombo non è arrivato in Asia ma in un nuovo CONFRONTI continente. E più ancora di quelli che capiscono, quelli che agiscono e rilanciano gli ideali positivi (umanistici, illuministici, cristiani ecc.) che vengono calpestati dalla storia; Tommaso Moro, 1'autore di Utopia, e, nel secondo volume, von Humboldt, che rappresentano rispettivamente gli ideali dello scrittore e dello scienziato impegnati. Accanto ai cretini, invece, i malvagi, coloro che si fanno volontariamente portatori di valori negativi, tra cui spiccano gli inteUettuali che non adempiono la loro funzione di comprendere e giudicare la realtà: Borges, neU'ultimo volume, su cui viene dato un giudizio severissimo e giusto, e con lui i tanti che hanno chiuso gli occhi, hanno fatto i cortigiani, non hanno voluto sapere. Sono loro, i cattivi e gli stupidi, che hanno rotto l'equilibrio del mito (si badi bene, non deU'epoca precolombiana, la cui storia, per il poco che ne sappiamo, non era diversa dalla nostra) e che pagano come tutti poiché anche la loro morte è una tragedia senza senso. Il primo volume si conclude come la fine, nel 1700, di Carlo II, "un pezzettino di carne gialla che fugge tra le lenzuola, mentre fugge anche il secolo e finisce, così, la dinastia che realizzò la conquista dell'America" (pag. 352). Sisifoe l'Internazionale. I 11villaggi Boemi"di libuse Monikovà Luca Rastello "Villaggi Boemi" è come "cose turche", Illustrazione di Josef Lodo per lo Sve;k di Hosek. •ma in tedesco: un'espressione un tantino spregiativa per indicare qualcosa di complicato e incomprensibile (i boemi, tra l'altro, dicono "villaggi spagnoli"). Ed è il titolo deUa prima ~ parte del premiatissimo (premio Doblin 1987, • premio Kafka 1988) romanzo di Libuse Monikovà (La facciata, Mondadori, Milano 1989, ed. orig. 1987, trad. dal tedesco di Giovanna Agabio, pp. 427, Lit. 28.000): una lunga, para- / tattica cartolina dal socialismo reale che accoz- ......._ .-,, za montagne di materiale eterogeneo, dalla barzeUetta alla dissertazione scientifica, dal- !' aneddoto di storia patria alla ricetta di cucina regionale, dal sogno alla memoria, dal reportage provinciale all'enunciazione utopica, dalla satira del linguaggio politico alla descrizione di miti e riti tribali siberiani; tutto apparentemente senza ordine o disegno. Vi si racconta 1' avventura di quattro artisti restauratori impegnati a rendere eterno il contratto statale in virtù del quale lavorano alle facciate del castello di Litomysl in Moravia. Destreggiandosi fra gli scarti di µna realtà impazzita, ma impazzita da così lungo tempo che ci si è potuti abituare, i protagonisti tentano di dare una soluzione burocratica all'impossibilità di portare a termine il loro lavoro: aspirano alla condizione di Sisifo, una nicchia sicura in quel gran Villaggio Boemo che fu I'Europa dell'est. Quando una facciata è - terminata, già il maltempo, l'usura, la scarsa qualità dei materiali impiegati rendono necessario ricominciare: è una cattiva infinità, ma una buona sistemazione, anche dal punto di vista economico e la cittadina morava non è priva di certe caserecce attrattive. E c'è spazio anche per una sarcastica creatività quando, privi di ogni scrupolo filologico, i quattro mescolano a piacere i temi iconografici rinasciment3.½della facciata con immagini di ananassi, sommergibili, ferri da stiro a malapena travestiti da simboli araldici. "Bisogna supporre che Sisifo sia felice", anche perché la successione dei risultati parziali del lavoro (un fregio, uno stucco), mima una scansione temporale, finge una direzione, dà al supplizio una parvenza di consistenza storica e fornisce un supporto al bisogno delle vittime di pensare il tempo come un vettore. Il lettore è gettato senza preavviso nell' assurdo quotidiano della provincia morava realsocialista, messa a fuoco con minuzia ossessiva, ma mai descritta, lasciata all'intuizione, da ricostruire attraverso dialoghi senza didascalie di personaggi che vi sono immersi e che alludono senza spiegare. Villaggi Boemi, appunto. La Monikovàha fissato il suo punto d'osservazione lontano dagli attori che si muovono come nel campo di una cinepresa a fuoco fisso, secondo un copione ripetitivo che impone movenze esasperate, ai limiti deUa macchietta, per una scrittura che rasenta il canovaccio. Non fambierà nuUa neanche quando gli eroi intraprenderanno un lungo viaggio verso il Giappone che non raggiungeranno mai, intrappolati fra il mistero magico e ilmistero burocratico della Siberia sovietica, fra miracoli e illusioni di varia natura. Ancora un'espressione idiomatica funge da titolo per questa seconda parte in cui è narrato il viaggio: "Villaggi di Potemkin", in memoria dei villaggi di cartape25
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