Caro Marco, scuserai se per parlare del tuo libro Lavorare in Fiat (ed. Garzanti) ho scelto di rivolgermi a te direttamente. Scuseranno, soprattutto gli eventuali lettori. Ma non sono un'addetta ai lavori e lo scrivere a un amico mi è più facile che scrivere di un amico. Leggere la tua introduzione è necessario (qualche volta le introduzioni si saltano). Essa infatti espone chiaramente l'oggetto del libro: la storiadellaFiat, con la sua eccezionalità nel panorama industriale italiano. Nella dimensione (eccessiva, sostieni tu, inltalia)non solo per l'estensione degli stabilimenti, peri] numero dei dipendenti (277 .000 a ristrutturazione avvenuta), per i vari tipi di produzioni (automobili, autocarri, autobus, trattori ecc.), ma anche per assicurazioni, fondi di investimento, supermercati, calciatori, quotidiani, settimanali e mensili, acque minerali e robot, banche, telecomunicazioni ecc. Ma, scrivi, non si tratta solo di "quantità", ma "di qualità, di sostanza". L'aspetto più importante è dato dalla "capacità distare ali 'interno del!' ordinamento statale italiano come una forza tendenzialmente indipendente, un corpo separato" fino a-rappresentare un "contro-potere" o un "potere parallelo". Oggi persino nelcampo morale c'è un tentativo di penetrazione. Non ho letto l'intervista diPansaaRomiti,maticredoquando sottolinei che in 22 pagine appaiono per ben 20 volte le parole etica, morale, moralità. Rappresenta insomma tutto questo il "sempre evocato e mai materializzato partito del capitale"? Come nasca questo potere è l'oggetto della tua ricerca. Per svilupparla proponi due ipotesi "grezze e sperimentali", sostieni. La metamorfosi da grande gruppo economico a "potere sovrano" ha dovuto "conquistare la propria legittimità mediante una qualche rottura oonflittuale di ampia portata". Di qui l'importanza che nella ricerca è data ai cosiddetti "35 giorni" del settembre/ottobre 1980; quei 35 giorni che portarono auna grave sconfitta il sindacato e alla dispersione di tante risorse umane che si erano andate aggregando nel decennio precedente. Addirittura tale conflitto, secondo la tua tesi, "sembrerebbe assumere carattere costituente". La seconda ipotesi su cui basi la tua ricerca: non si può comprendere la Fiat di Romiti e della "Uno", del profitto e del silenzio operaio, senza confrontarla con la "Fiat istituzione totale" di Valletta e la "Fiat di comunità operaia" degli anni Settanta. Presente e passato sono legati da un nesso Fiat:porte, voci, silenzi. Una lettera a MarcoRevelli Bianca Guidetti Serra Foto di Giò Palazzo indissolubile di causa-effetto. Sarebbe incomprensibile la perentorietà estremistica del "vogliamo tutto" operaio nell'autunno caldo e nel periodo successivo senza il confronto con l'estremismo produttivistico della fabbrica entro cui era maturato: senza gli anni duri, il dispotismo alla catena di montaggio e della gerarchia di fabbrica, i ritmi "spinti ài limiti fisiologici, la salute pèrduta, la dignità offesa". La tesi è chiaramente espressa. Condivisibile nella sostanza. Ma non è forse un po' esasperata, più simbolica che legata alla realtà quando concludi: "Senza la Mirafiori 'capitale operaia' di ieri, in sostanza, la Mirafiori 'capitale' di oggi non si spiega"? È su quella "capitale" di ieri che nutro qualche dubbio, anche se riconosco che ci sono stati tempieinfluenzediverse da quelle degli ultimi anni. Su questi cardini il tuo libro, 139 pagine fitte di notizie, dati, osservazioni, ipotesi, offre aspetti di grande interesse. Intendo riferirmi alle "cose" e alle "voci". Alle "cose" che, più ancora che come realtà, hanno contato come simboli nel dipanarsi della storia, fino a conservare un potere di rievocazione, pur frustrato, che ancora oggi coinvolge. Le "porte": le porte del colosso industriale torinese che tu ricordi. La gente della mia generazione' le ricorda dal marzo del 1943 quando alle porte appunto si accorse, per capire cosa fosse successo quando improvvisi esplosero iprimi scioperi dopo venti anni di fascismo; le porte barricate e presidiate durante l'insurrezione. Ma "le porte" anche dopo, dove si andava per incontrare gli operai, per parlare con loro, per distribuire i giornali (ma quando fu che non potevano farsi vedere con "L'Unità" in tasca?), a "picchettare", a fare comizi; talvolta a scontrarsi, ma anche a comprare e vendere un'infinità di piccole cose, dalle chincaglierie ai generi alimentari. · Andare alle porte alle sei del mattino, nella nebbia e nel gelo torinese, con una sorta d'affezione alla "propria" porta quella dove si "prestava militanza" (come si dicevanel gergo della tua generazione)esiconosceva tutti. Unmododi essere presenti, di esprimere un'adesione, di cogliere il nuovo; per quelli che entravano e per quelli che restavano fuori. Mi accorgo di esagerare. Attribuendoti delle cose non scritte che però mi sembrano sottintese. Passiamo alle "voci". Queste pervadono tutta la tua storia direi coralmente, e la rendono storia di uomini e di donne. Voci lontane e vicine che inserendosi nel generale ti raccontano nel particolare il loro vissuto: come cominciò quel certo sciopero; come si formò quel corteo interno; come avveniva che talvolta volassero i bulloni e altro. Ma il particolare si annoda in una trama fitta su cui si disegna il generale: la Fiat degli anni Sessanta, la Fiatnell' autunno caldo, iprimi anni Settanta e poi quella che definisci "la tregua" trail 1975 e il 1979 con gli operai che cambiano, fino all'autunno '80. Dall'interno di questi fatti le voci raccontano, pur con i limiti che la memoria comporta, cose sostanzialmente vere, con la difesa, legittima, del proprio patrimonio di vissuto anche se in qualchecasoconqualcheenfasi. Si veda Parlanti, il suo racconto del ricongiungimento dei due cortei. Voci, come dicevo, sostanzialIL CONTESTO mente vere. Vere, per esempio, per quanto coincidente (si scusi il riferimento personale) con quanto da me vissuto di riflesso: leggendo atti processuali, assistendo a inter - rogatori,ricevendoconfidenzeprima e dopo gli stessi. Quanti dei nomi riportati ho riconosciuto, anche tra quelli che indichi solo con le iniziali! Che restino, quelle voci, ché resti la memoria di quei fatti "minimi", che siano consegnati alla storia (scusala mia enfasi a questo punto; ma tant'è!). Voci e silenzi. Ci sono anche i "silenzi", quelli che per loro natura non escono dalle mura dell 'impresa, non certo corali. Quelli che simbolicamente, mi pare, si identificano con i "Circoli della qualità", quelli che, come ha auspicato il condirettore della Fiat Auto nel presentarli, dovrebbero diventare "una filosofia della vita (...) inmodo che tutta la nostra Azienda diventi un unico grande circolo della qualità". Da qualche anno, scrivi, migliaia di dipendenti si trattengono in fabbrica a fine turno, volontariamente e senza remunerazione, per discutere con il capo le innovazioni più adeguate. Progettano, propongono, gareggiano tra loro; tali sono i "circoli dellaqualità". Il loro modello viene dal Giappone, dove neesistonounmilione.Giustamente ne riferisci nell'ultimo capitolo: sono un fatto nuovo non indifferente e te ne chiedi il significato. Non credo sia seria una risposta affrettata; ma perché non chiamarli: "Circoli del consenso"? Tanto più che "dietro la facciata patinata del consenso", come scrivi quasi a conclusione dell'ultimo capitolo, "c'è anche un'altraFiat, meno rassicurante emeno visibile. Quella(è solo un esempio?) rappresentata dall'Upa (Unità di produzione accessoristica). Il reparto che ricorda quello denominato, ai tempi, "Stellarossa", che piùrecentementeGad Lemer ha definito "Corte dei miracoli". Un reparto dove vengono confinati "sordi, muti, handicappati, concentrati tutti insieme con impietosa selezione ... con ex delegati combattivi, con quello che resta del grande esercito dei cassintegrati". La parte sommersa che non viene mostrata agli ospiti di riguardo. Ma, concludi tu, forse "quel migliaio di vinti confinati aimargini della più gigantesca concentrazione di potere italiana, ha comunque'un valore simbolico. Rappresenta l'impietosa allegoria dei rumorosi anni Settanta; l'immagine, deformata come in ogni rito crudele, con cui i vincitori degli anni Ottanta amano raffigurarsi, dopo la' grande paura', ciò che resta del decennio precedente". 13
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