CINEMA quanto alla Sautet o, se si vuole, alla Truffaut, nella sua assoluta mancanza di cattiveria, di necessaria durezza, nella sentimentale ricerca del "buono" che c'è dietro una volgarità non di comportamenti ma, più, di modi d'essere di fronte all'esistenza. Ciò che ne ha fatto il successo è, però, un insolito talento a lavorare dentro .questi limiti, l'acutezza di sguardo sulla ,dolorosa educazione sentimentale di un' adolescente e su un certo mondo familiare di piccola borghesia romana; detto in altri termini, la sua capacità di calare il racconto in ambienti, figure, attori verosimili. Senza dubbio il nuovo lo si comincia a intravvedere, ma è un nuovo ancora troppo interno. Interno a certi canoni, a certi generi, al rinato mito della sceneggiatura forte. Un merito certo di questo cinema è quello di avere messo (quasi) fuori gioco confessioni e più o meno miseri autobiografismi. Tenta la carta della realtà, dopo troppo cinema da Fine della Storia, dà piccoli Fukuyama intempestivi. Marco Risi con Mery per sempre è forse quello che si è spinto più in là nella scoperta concreta di un mondo di emarginazione· su cui c'erano state tante inchieste asettiche e moralistiche, ma che mai era stato raccontato come un sistema culturale a sé, dentro e fuori' il Malaspina, con le sue regole e contraddizioni, con il suo immaginario. E forse sarebbe vàlsa la pena di.approfondire il discorso sul suo realismo, medio ma con frequenti scatti. e risonanze ulteriori e con abilissimi innesti di melodramma sociale (e, connesso, un appena accennato "ottimismo" riformista) e di azione e violenza cinematografica. Al contrario, è questa forza di racconto che, per tante ragioni, non ultime quelle produttive, difetta ad altre esperienze forse più aspre, più vissute. Quella di La donzelletta di Pasquale Scimeca, il cui titolo leopardiano (con un riferimento al Pasolini contadino) . fa da controcanto a un racconto dall'interno della tossicodipendenza (da cui sono usciti il regista e buona parte degli attori e della . troupe) in una Palermo fisicamente sentita nel suo degrado e nella sua durezza. Quella di Gentili signore di Adriana Monti, sorta di presa diretta, autoironicamente femminista e militante, del vissuto di gruppo delle operaie milanesi di una cooperativa. Se si aggiungono certi lavori di Daniele Segre sul terreno del documento affabulato (non ancora della fiction), a volerle cercare e vedere esistono, insomma, tante realtà "inattuali'.', vitali, nuove, aperte, in un mondo di apparente uniformità;-o meglio di uniformità senza identità. Scrivevamo tanto tempo fa che la riscoperta di altri paesaggi, insoliti perché veri, e ·quindi di un linguaggio vissuto, pagato. di person,a, ci pareva una delle ipotesi più serie di certo cinema di oggi. E su questo terreno che il nuovo ha trovato più precisa espressione. C'era stata fa ricca Padania delle corruzioni e complicità "scoperta" da Mazzacurati in Notte italiana, prima.della riduzione (in ogni senso) da Parise di un Prete bello sorprendentemente illustrativo. E una scoperta lo è anche quell'angolo di Prati del film dell' Archibugi, così come quella periferia e quelle vecchie case che sono il luogo di ogni impossibilità per i personaggi di Sembra morto ma è solo svenuto di Felice Farina, uno dei film più sfortunati e ingiustamente rimosso, l'uno e l'altro così lontani dalla Roma di nessuna parte di sempre. Sono paesaggi che istituiscono la necessità di una storia, che danno radici e verità alle figure che li popolano. Il progetto eccessivo e non appieno controllato di Stesso sangue di Eronico e Cecca, ombre di generi e gioco di allusioni, on the road senza troppa azione e rabbie giovani, rapine, fughe senza sbocchi, trova il suo luogo naturale in un Molise di piane spopolate e di degrado industriale, di realtà e figure colte contemporaneamente in accezioni arcaiche e fantastiche. Vi trova una verità cinematogràfica nostra, giusta cassa di risonanza per la condizione di ·"orfani" che vivono fratello e sorella protagonisti, una condizione di malattia e un bisogno inquieto e inespres~o di altro che ha fatto presa su un pubblico giovane, necessariamente ancora più straniero che italiano. Se per molti sembra essersi consumato il _passaggio dalla controcultura alla sottocultura, quella alta(?) e ben retribuita dei media e quella bassa di una marginalità raramente scelta e perciò piena di risentimenti, è su questo terreno di rapporto con il sistema produttivo, di innesti, dicontaminazion•i, che si gioca il destino di tanti filmakers. Non è questione se andare o no a Roma. È una questione di atteggiamento, di mentalità, di modo di affrontare la realtà e lo spettacolo, e la realtà dello spettacolo. Non molto ci sembra promettere una nascente linea neo-orfica, lettrista, poeticistica senza assoluti. Nonostante l'astiosità del personaggio, qualche sorpresa ci si può aspettare da Gaudino proprio per il suo rigorismo impopolare. Non da altri troppo giovani o troppo vecchi. Stranamente inferiore alle attese è per ora l'apporto degli autori della scuola di Bassano, più o meno legati a Olmi. Maicol di Mario Brenta e In coda alla coda di Maurizio Zaccaro rivelano una rara attenzione al quotidiano e ai condizionamenti psicologici o grotteschi che i suoi riti impongono, ma lo fanno in una chiave quasi di neutralità sociologica,.non senza un fondo moralistico, con un realismo minuzioso che attutisce, sqmssa, rischia di cancellare indubbie potenzialità critiche nei confronti di compori:ame.ntie amJiienti tanto comuni quanto inediti. Per non parlare di Corsa di primavera di Giacomo Campiotti il cui candore ci pare più che sospetto e pericolosamente contiguo a ideologie cattoliche non entusiasmanti. Visioniprivo/e-di N. Bruschetta,F..Calogero,.D. Ravaud. Ma intant~ il morettismo è alle porte.lo si sente nell'aria, fastidioso come il ruolo pubblico, un po' cercato, un po' forzato, che Moretti da ultimo recita, da Simon Le Bon distante e prossimo di strati ex-giovani culturalizzati e "magnetizzati dalla società dello spettacolo". E non è solo per l'ultimo suo protetto, Corso Salani, autore di un acerbo ma interessante Voci d'Europa. Soprattutto temiamo .che a essere ripreso non sarà quanto di insofferente e dunque di utile·c'è nei suoi film (quella tensione morale, per esempio), ma proprio gli aspetti più superficiali e rnodaioli. Ci sono già tutti i segni perché Moretti diventi ciò che per i giovani cineasti e cinéphiles è stato Wenders nell'ultimo decennio. Se dei padri si devono cercare, li si cerchi altrove. · Magari più lontano: Kubrick o Lang, creatore dell'industria culturale e moralista dei media. · · Da ultimo, uno dei film che ci sembrano più riusciti di questi anni, L'imperatore di Roma di Nico D'Alessandria, un film non di un giovanissimo (l'autore è nato nel '43), che è passato inosservato ai segugi dei nostri infiniti festival, ai loro sguardi alternativi. Racconta, anzi segue, in apparenza neorealisticamente pedina (in realtà ne è un "doppio", uno sguardo altro, critico e 83
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