SAGGI/PARRI sedati senza polizia. Ma l'offensiva contro i CLN era diventata il leitmotiv radicale. La "continuità dello stato" era il sacro testo violato dai reprobi, storicamente e politicamente incolti, inconsapevoli o docili strumenti delle mire eversive dei comunisti. Non era una polemica e una battaglia nuova: già nel 1944 quando i CLN preparavano gli schemi per le nuove cariche pubbliche era stata sollevata la stessa obiezione, oggetto di discussioni vivaci. Era stata, _etanto più era ora, una delle questioni che ci avevano disturbato di più. Una delle ragioni più evidenti della battaglia passata era stata proprio quella di rompere la continuità non solo con lo stato fascista, ma anche con quello prefascista. Autori liberali ci avevano convinti della necessità di riformare la struttura di quello stato napoleonico, prefettizio, autoritario e centralista. Era nostra esperienza che bisognasse accrescere in ogni modo la partecipazione dei cittadini alla vita della collettività. Le campagne meridionali ribollivano di proteste: l'urgenza della riforma agraria diventava sempre più evidente. Tenevamo ancora ai CLN e ai nostri prefetti perché, scartando ogni usurpazione indebita di poteri civili, rimanevano organi di collegamento più che utili per superare un anno di transizione, tormentato da mille inquietudini locali, per dare modi efficaci di contatto del governo col popolo. Le mie spiegazioni e quelle di Togliatti, in' giusta difesa dei tribunali popolari che avevano bene operato al Nord, non placarono gli oppositori e le loro intimazioni perentorie per il ritorno su tutta la linea alla normalità. Alla vecchia normalità. Già in agosto qualchè ronzio mi era arrivato all'orecchio: voglia di farmi fuori. Con la ripresa di settembre si sviluppò la polemica tambureggiante. Con ottobre secondo una previsione lineare la situazione si doveva o chiarire o spaccare. I colleghi si mostravano tuttavia tranquilli sulla sorte del gabinetto. Pareva anche a me fuori del prevedibile che questioni di lana caprina potessero interrompere tanti impegni e provocare le prevedibili ire dell'Italia partigiana. Mal' ottobre portò indicazioni non rassicuranti, che aggravavano le mie difficoltà. Diventò presto chiaro clie tra Napoli e Roma si stava intessendo un piano con fini politici ben determinati. I miei rapporti con Benedetto Croce, pontefice massimo ed infallibile del liberalismo conservatore, non erano buoni. Non amava il rivoluzionarismo intellettualistico del Partito d'azione: sono noti i suoi strali. Era pieno di dispetto per i grandi crociani che lo avevano abbandonato passando tra gli azionisti. Lo aveva punto un giudizio da me espresso nel discorso di inaugurazione della Consulta sul paternalismo semiborbonico, non democratico, dei regimi prefascisti; ne era seguita una polemica da me certo non desiderata. Disse ai giovani che aveva intorno e gli citavano alcune mie posizioni intransigenti, che avevo temperamento di fanatico o di mistico, pericoloso in ogni modo al governo. Era politicamente nelle mani di un gruppetto di abili cortigiani, che ottennero la sua benedizione per l'operazione liberatrice dall'incubo azionista. Nulla mi parve così mortificante come la strumentalizzazione di un'autorità culturalmente così alta e della sua dottrina per una operazione di modesta cucina politica. Si veda quello che ne scrisse Omodeo dopo la crisi del governo. Avevo contro i vecchi, pur sempre rispettabili santoni, rientrati dall'esilio, e delusi per non esser stati chiamati a salvare la patria. Particolarmente astioso Nitti. Quindi tutta la intelligenza ed il politicantismo meridionale contro il Parri e l'indigesta Resistenza che si portava dietro. Era condizione evidente di riuscita della operazione l'accordo con la maggior fona politica di destra, cioè con De Gasperi. Sull'atteggiamento di De Gasperi non sono concordanti tutte le versioni che se ne danno, e devono naturalmente far conto della prudenza delle sue manovre tattiche. Doveva certo molto allettarlo la possibilità di risolvere a proprio vantaggio la contesa del giugno con Nenni per _la presidenza del Consiglio, deve averlo trattenuto la previsione della reazione comunista e socialista ed il prezzo eventuale della rassegnazione di Nenni (fu il ministero dell'Interno). Non lo preoccupava la situazione internazionale. È vero che in Europa non si desiderava una crisi. È vero che la stampa estera non fu con DeGasperi: a Londra si deplorò vivamente la replica di DeGasperi al mio discorso di congedo del 24 novembre; gli organi di governo di Belgrado e di Mosca deplorarono il risorgere con De Gasperi della vecchia Italia nazionalista e prefascista. Ma i governi, quello di Londra in prima linea, avevano interesse e piacere a nuove soluzioni ministe- 'riali che assicurassero maggior stabilità, maggior puntualità di esecu68 zione delle clausole di armistizio, nessuna connivenza con i comunisti. De Gasperi rappresentava la più forte capacità di coagulazione di tutte le fone conservatrici italiane. E così quando portai al principe Umberto la comunicazione delle mie dimissioni se ne rallegrò prima di tutto lui stesso, data la quasi prevalenza dei monarchici nelle file democristiane, poi la Curia vaticana, poi la Commissione alleata di controllo il cosiddetto ammiraglio Stone. Può valer la pena che io ricordi che nell'estate del '45 il nunzio apostolico mi aveva portato una cortese comunicazione papale che esprimeva il desiderio di buoni rapporti con il mio governo proprio in relazione ai suoi legami con la lotta di liberazione. Poiché mi chiedeva quali atti avrebbero potuto dimostrarmi questa benevolenza dovetti esprimergli il desiderio che fossero allontanate da Milano due personalità, particolarmente odiate dagli antifascisti. Uno era padre Gemelli, l'altro il cardinale Schuster. Le risposte furono diplomaticamente evasive. Poi si aggiunse qualche altro episodio. Ed io fui classificato tra gli anticlericali incomodi. Le relazioni con la Commissione alleata erano andate peggiorando. Avevamo con alcuni funzionari della Commissione cordiali rapporti: al leale buon volere di alcuni di essi dovetti rifornimenti salvatori di grano e di carbone. Ma l'ente teneva a fare sentire le condizioni di armistizio che ci ingabbiavano. Fu pubblicato solo allora il testo del cosiddetto "armistizio lungo" di Cassibile: un bruttissimo capitolato di umiliazioni e penali, nel quale si rispecchiava lo spirito sciagurato della "resa senza condizioni," frutto della cecità testarda di Churchill e della debolezza di Roosevelt. Era intervenuto poi il cosiddetto "armistizio corto" negoziato dal più saggio Mac Farlane con Badoglio. Ma ogni poco ora si minacciava di richiamare in vigore qualcuna delle clausole del "lungo" ed io ero obbligato nelle conferenze stampa che indicevo quasi settimanalmente per tenere i contatti tra governo ed opinione pubblica (De Gasperi le abolì) a frequenti proteste contro l 'applicazione fiscale dell'armistizio, le piccole vessazioni, i favori ai monopoli americani, le promesse non mantenute. Mi dispiaceva fortemente il rinvio del passaggio alla amministrazione italiana delle mo) te province settentrionali rimaste sotto la giurisdizione militare alleata. Successe a questo proposito che la normalizzazione del regime di queste province, comprese quelle al confine giuliano, inopinatamente rinviata ed in parte negata al governo Parri, dopo le mie dimissioni venne prontamente concessa, afardatadal 1 ° gennaio 1946, al governo De Gasperi. Un agreemenJ, un coccolezzo. Non potei non pensare che lo Stone avesse dato il suo benestare al progettato colpo di mano liberale. Non parlavo allora di congiura. Cinque giovani liberali formavano il gruppo d'azione dei cospiratori. Avevo con quasi tutti rapporti cordiali. Coi maggiorenti, come Carandini e Brosio, rapporti di amicizia. Non mancarono perciò i giovani di avvertirmi della loro decisa opposizione al governo e della volontà di portarla ad uno sbocco. Eravamo già a novembre. Facevano un casus belli delle usurpazioni di potere dei CLN del Nord, anche se non mancavano alle loro requisitorie altre ragioni a me ben note di attrito. Avevo preso forse un poco troppo leggermente il loro cartello di sfida. E da parecchie parti ora mi avvertivano che non mi illudessi sui propositi reali e finali dei congiurati. Credetti mio dovere dar prova del maggior spirito di moderazione e conciliazione nei limiti consentiti dalla dignità. Tentai in vari incontri di persuadere questi avversari con mille ed una buona ragione, parendomi inverosimile non si potesse giungere ad un accordo, da comunicare poi ufficialmente al consiglio dei ministri:Ma quelli restavano irremovibili, più duri di testa di me; Brosio, vicepresidente del Consiglio, si stringeva nelle spalle, ed un ultimo incontro, in casa di Carandini, si concluse con molte dichiarazioni di stima per me, ed un netto pregiudiziale rifiuto di trattare. Non ricordo quanti giorni dopo Brosio comunicò al consiglio la decisione del Partito liberale di ritirarsi dalla còalizione di governo. La motiv-azione mi parve corretta e stentata. Io feci la storia delle mancate trattative e delle mie proposte di soluzione. Togliatti protestò vivamente, e protestò anche Nenni. Mi pare che De Gasperi dicesse che non c'era che prender atto del ritiro. Io conservavo la calma di fuori, ma dentro ribollivo. Con tutto quello che faceva SUffiX>ITedi preparazione, di complicità e di intrigo, con questi pretesti che servivano allo sgambetto fraudolento, questo diventava un colpo di mano. E la prima reazione fu quella di resistere, ed
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