SAGGI/PARRI Antologia LA CADUTA DEL GOVERNO PARRI Ferruccio Parri Perché parlare ancora di questo governo Parri, intermezzo tra i due governi Bonorni di attesa ed il primo degli otto governi De Gasperi? Oltre la memoria degli annuari, qualche curiosità è rimasta tuttavia negli storici e negli uomini di quel tempo. Scrivo un po' per loro, ma anche per me. Mi interessa, in generale, sempre e soltanto il giudizio, che è spesso non indulgente, che do io stesso delle mie azioni, e qui mi interessa fissare, prùna di tutto per me, il posto che ho avuto in un momento critico della storia italiana, utile forse ad intenderne anche il corso attuale. Ventisette anni sono passati: caduto ogni risentimento,. si può parlarne con sereno distacco. Per spiegare come cadde, devo ricordare co.me questo governo nacque. Avvenuta la liberazione, occorreva un governo nuovo. I CLN del Nord-Milano in testa- facevano la voce grossa, in nome delle nuove attese, delle grandi speranze e degli stringenti bisogni. E non mancava quel tanto di diffidenza che i cisalpini hanno per la Roma dei politicanti, anche se di romani nel Comitato ·nazionale di liberazione non ce n'erano. Si dava sfogo al lungo silenzio nei grandi e tumultuosi comizi. Correvano parole grosse: rivoluzione e repubblica erano le più innocenti. Soffiava il "vento del Nord," che impermalì tanti generali e burocrati di Roma e gentiluomini del Sud. Nenni si sentì portato da quel vento impetuoso e dall'entusiasmo sollevato dal richiamo ancor affascinante del socialismo: abbattere la reazione in agguato, repubblica subito e Costituziòne. E quindi presidenza del Consiglio a Nenni. Credo esatto come dice Andreotti che il presidente De Gasperi avrebbe preferito aspettare. Ma la previsione del socialismo al Viminale corrucciava i non angelici custodi che vigilavano dal Vaticano e dall'ufficio dell'ammiraglio Stone. La grande e silenziosa armata raccolta dietro le parrocchie guardava ormai a De Gasperi come a proprio fiduciario e rappresentante. Ed egli non poté far a meno di contrapporre la propria candidatura. Le abilità manovriere dei politici romani non valsero a dirimere la contesa, vero braccio di ferro. Il CLN di Milano aveva offerto la propria mediazione ed una propria candidatura, ed i romani avevano gentilmente scartato l'una e l'altra, diffidenti per parte loro della sprovvedutezza politica dei milanesi. Ma quando la contesa si inéancrenì pericolosamente - . Bonomì si era dimesso da oltre un mese - il CLN di Milano tornò alla carica ritenendo che solo un rappresentante diretto della Resistenza poteva esser posto su un piano superiore alla contesa. Più di me, i titoli li aveva Rodolfo Morandi, allora presidente del CLN Alta Italia. Ma era socialista anche lui. Troppo a sinistra. Valiani è il responsabile principale della candidatura Parri. Brusasca la portò a Roma. La Màlfa fu di parere contrario: disse che mi sarei bruciato io, ed avrei bruciato il partito (d'azione). La Malfa ha intelligenza, sensibilità, capacità di far manovra e di far politica in generale eccezionali: capivo che per quello che mi riguardava aveva ragione, ma la previsione non importava tanto da pesare sulle mie decisioni. Per il partito il discorso è più complesso. A rifiutare mi spingeva là' consapevolezza di non aver preparazione giuridica ed amministrativa sufficiente, e di non aver né gusto né attitudine per la vita politica. Ad accettare, a parte un certo istinto di avventura, mi spingeva quel certo complesso di "doverismo" che mi ha sempre dominato (e fregato). Io ho la disgrazia di non saper dimenticare, e la Resistenza con quanto ha di tormentoso, di doloroso e di grande aveva profondamente inciso il mio spirito. Portarlo al Viminale mi pareva compito da non poterrifiutare. Portare l'esperienza _unitaria~e!la lotta di liberazione mi pareva potesse servire per la guida del m1rustero che doveva preparare la Costituente ed anche per il Partito d'azione. La composizione del ministero non fu cosa facile, come del resto accade sempre per ogni formazione che esiga _dosàture e cura degli 66 equilibri. I partiti partecipanti erano sei, perché rientravano socialisti ed azionisti che avevano disertato il secondo gabinetto Bonomi non in regola con l'investitura del CLN nazionale. Sempre assenti i repubblicani, intransigenti sul principio antimonarchico. Guidare questa esarchia era allegro e facile come reggere un tiro a sei di cavalli diversi di peso e di umore. L'umore tra destra e sinistra era in generale sospet- . toso. Ene dette provalacontesaimP,iccata perii ministero dell 'lnterrio che doveva preparare le elezioni. Per evitare il naufragio dovetti io stesso, tra il malumore generale, assumerne l'incarico, sotto la vigilanza del buon Spataro, sottosegretario, avendo dovuto accèttare anche un droit de regard del ljberale Brosio, vicepresidente del Consiglio. L'altro vicepresidente era Nenni, il primo incaricato di preparare la Consulta, il secondo di pensare alla Costituente. Non ho certo l'intenzione di tracciare qui la storia del governo Parri. Non sarebbe cosa breve, tanto gravi e urgenti furono i problemi della difesa dell'unità nazionale, dei rapporti con gli alleati, della saldatura tra Nord e Sud, degli approvvigionamenti vitali, del ristabilimento di una certa tessitura comune di vita civile. E non sarebbe lieta, tanti furono i dissapori, i malintesi, i sospetti, le ostilità ingiuste e il malessere di un'aria grève di tr1 anelli e complotti intessuti dietro le quinte. Certo posso dire che sono le riforme che non si vedono quelle che costano più lavoro. E posso aggiungere che la maggior parte dei giudizi d'insieme giornalistici che ho potuto leggere su questo momento della storia italiana mi sono parsi superficiali, inesatti e tendenziosi. Occorrerebbero forse sui capitolì di maggior interesse storico - mezzadria e contratti agrari, consigli di gestione, ricostruzione industriale, scuola, riorganizzazione militare, epurazione, Sicilia, ecc. - saggi monografici adatti a giovani studiosi sul tipo di quello che il professor Enzo Piscitelli dell'Istituto storico romano della Resistenza ha dedicato al mancato cambio della moneta e alle connesse questioni finanziarie. Certo con tanta pressione di pensieri e d'inquietudini potevo facilmente smarrire quel modesto sacchetto d'ideali che mi faceva da scorta nella mia avventura romana. Mi manca il dono dcli' eloquenza comunicativa e la voglia di declamare, e gli ideali che avrei dovuto ogni tanto fieramente proclamare se ne stavano acquattati, vergognosi di es~er capiti male, travisati o malamente strumentalizzati. Ero partito con l'idea che il semplice motto originario degli azionisti "Giustizia e libertà" avesse le implicazioni politiche, giuridiche e legislative necessarie e sufficienti per una riforma democratica del nostro sistema sociale. Non era una posizione classista, distinta quindi da quella ufficiale dei comunisti, ma aperta e favorevole a tutti i progressi della classe operaia, con la condizione tuttavia di una politica di concretezza e di realismo. Vedevo bene che avevamo un bisogno primario di rimettere al lavoro produttivo non tanto le poche grandi industrie quanto la folla degli imprenditori minori. Se non riprendeva il flusso del reddito l'alternativa era la disoccupazione, la miseria e la fame. · I comunisti queste cose le sapevano bene, ma non tenevano -mi pare - a proclamarle. Sapevano bene che mancavano le fone, e mancava la possibilità internazionale di buttar per aria le strutture sociali, specie dell'industria, surrogandole con nuove forme di gestione. Però una certa tensione nella fabbrica e fuori della fabbrica serviva al partito. Ma serviva anche a impaurire l'Italia dei possidenti e l'Italia conservatrice. Su da noi, nei CLN del Nord, la possibilità di dialogo con i liberali e coi democristiani non si era quasi mai interrotta, ed abbastanza larga era sempre rimasta la possibilità di mediazione e di compromesso. Dozza; che rappresentava i comunisti nel CLN di Milano, fu un seduttore modello. La Resistenza aveva bruciato in larga parte delle classi sociali molte scorie~Nessuno dei membri di tutti i grandi CLN pensava possibile tornare ai livelli, tempi e governi dell'Italia prefascista. Oltre Roma, padroni e agrari erano di un'altra razza. E al governo le deliberazioni erano spesso difficili o dilatorie o non seguite. Tutte le domeniche i capi partito andavano a predicare in provincia. Discorsi infiammati. "O la rivoluzione o il caos," "o la repubblica o il caos." Poi il lunedì tornavano in Consiglio dei ministri
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