Linea d'ombra - anno VIII - n 45 - gennaio 1990

CONFRONTI Marginidi libertà. IncontroconUmbertoRiva a cura di Giacomo Bore/la Architetto, designer e pittore, Umberto Riva è nato a Milano nel 1928 e ha studiato architettura a Venezia dove si è laureato nel 1959. Lo abbiamo incontrato in occasione della pubblicazione di Album di disegni (Quaderni di Lotus, Electa, testi di Pierluigi Nicolin, Guido Canella e Maria Bottero), un'ampia monografia che raccoglie i suoi progetti e realizzazioni dagli anni Sessanta ad oggi. La conversazione si è svolta nella sua casa-studio di Milano, davanti ai disegni del progetto per la sistemazione di piazza San Nazaro, a cui sta lavorando. Tu hai progettato molto e costruito abbastanza poco; hai sempre lavorato su piccoli progetti e dopo alcuni decenni di attività sei tuttora una figura isolata nel panorama dell'architettura contemporanea. Come lo spieghi? Forse è che "suono male" con chi produce e per questo ho avuto tutta una serie di esperienze che non sono andate a buon fine (ma non li definirei insuccessi), proprio perché alla fine non ci si intende. Dev'essere proprio che mi manca "le physique du role" ... lo sono disposto a fare tutto, nella misura in cui ne sono capace, solamente seguendo una inevitabile coerenza, che è la coerenza di chi non può essere diverso da quello che è. E poi io in fondo non ho una vera committenza, sto cominciando adesso ad averne: finora sono sempre state delle situazioni abbastanza casuali, sporadiche. C'è un'altra cosa strana: in genere ti capita di fare un lavoro in un determinato ambiente e quello, all'interno di questo ambiente, fa risonanza e altre persone ti chiamano per fare altri lavori. Questo a me non succede, non so perché. Devo dire che io non mi sono mai dato molto da fare a cercare i committenti; non so da che parte si comincia. Preferisco ridurre i bisogni piuttosto che lasciarmi condizionare dall'ottica di dover lavorare per doverne poi soddisfare di nuovi. Lavorare da solo (ora mi aiutano due miei nipoti), lavorare in casa, vuol dire avere minori costi e quindi dei margini di libertà per lavorare come voglio. È evidente che questo non mi permette di fare dei lavori più impegnativi, più grossi, ma non è che ci soffra molto. Nelle tue opere mi sembra di poter leggere una sorta di insofferenza verso molti dei luoghi comuni dell'architettura corrente e della cultura dominante. Haifiducia nell'architettura come strumento di trasformazione della realtà? lo credo çhe l'architetto, e non solo l'architetto, direi nessuno (inteso come individuo), si può permettere il lusso di pensare che modifica qualcosa. Ogni ambiente mi sembra che abbia gli architetti (e tutto il resto) che si merita, classe politica compresa. Non ho mai pensato l'architettura come qualcosa che possa modificare ... se non me: è un mezzo di conoscenza, è l'unico che ho, di comunicazione di modi di stare al mondo; e anche un mezzo per campare ... Rifiuto qualsiasi definizione di "valore", ogni giorno potrei mettermi in crisi in questa precarietà in cui si vive. Questo bisogno di mettere in crisi ogni regola, di azzerare ogni a-priori, come è maturato? Direi che è maturato per quella difficoltà che si fa a stare al mondo. Ma forse dipende dalla mia storia personale: la guerra, il dopoguerra, un'affettività molto singolare ... e poi probabilmente c'entra anche un certo quoziente di tnia ottusità nell'apprendere le cose: mi è molto difficile fare delle scelte aprioristicamente, solo attraverso il lavoro riesco a capire qualcosa (nel lavoro le scelte di progetto si scontrano con coloro che devono realizzarle; è una verifica continua, una fase molto importante, la più stimolante di tutto il processo). In realtà le tue architetture comunicano con molta forza dei valori. Sì, ma lo dicevo nel senso che sostanzialmente ilproblema è quello di darsi un senso, e devi dartelo tutti i giorni; e il nodo è quello lì, il resto non ha molta importanza. NonhaimaicercatoaiuJonella "tradizione"? Direi di no. Io di formazione sono un autodidatta, non ho mai memorizzato niente, tutto quello che non è diventato esperienza non sono mai riuscito a ricordarmelo, perciò la scuola e l'università ame sono servite poco. Se io fossi vissuto ai tempi in cui si andava a bottega sarei stato bravissimo, nella misura in cui avrei acquisito, col fare e con l'esperienza, un modo di conoscere. Però io per tradizione intendevo il corpus di esempi e di esperienze concrete prodotto dall' architettura nella storia. Ti dirò che siccome in pratica la mia unica cultura è W1acultura sostanzialmente visiva, finisce che quando vado in un posto cerco di captarne nei miei modi un certo umore. Non ti saprei parlare di una cultura lombarda del costruire. Sì, io sono lombardo, perché sono sempre vissuto a Milano, e conosco i problemi che ci sono qui perché ho fatto tutta una serie di errori... non so, per esempio quando ho voluto fare una casa in cemento armato a vista e col tetto piano in via Paravi a, aMilano, che è un'idiozia, vuol dire calare un tipo di informazione puramente astratta, formale, in una realtà ambientale con delle precise caratteristiche ed esigenze. E poi una casa va sempre fatta con gli spioventi, io trovo, se pensi ancora che gli edifici debbanoresisterenel tempo. Anche la tradizione, quindi, non è un valore: se ti capita usi degli elementi tradizionali, quando verifichi che rimangono il modo migliore per risolvere un problema, come nel caso del tetto a spioventi ... Sì, non sono mai riuscito a fare diversamente. È che proprio sono un autodidatta, perché mi manca una cultura trasmessa del fare: una volta gli architetti erano prima scalpellini e poi piano piano piano... Borromini prima era intagliatore di pietre, poi è sceso a Roma dal Maderna, e così... non c 'era questa frattura fra il fare e il pensare; invece qui fino a quando si studia si ha un certo tipo di cultura, senza nessW1tipo di verifiche, in cui l'apprendistato è una cosa d'una povertà treme;da. Ma magari ero io che non avevo capacità di sintesi ... Sono forse un pittore mancato, nel senso che avrei avuto bisogno di un'esperienza diretta e invece ho dovuto aspettare. Che rapporto ha la tua pittura con la tua architettura? Be', chiamarla pittura è anche troppo ... sono stati dei momenti, ma non è mai riuscita a diventare mestiere, è questo il suo limite; manca anche qui la sapienza acquisita attraverso il fare, percui se non "sai" un colore fai molta fatica a realizzarlo e a capire come metterlo in relazione con altri colori. Allora io faccio nient'altro ahe dei quadri progettati, completamente mentali, e manca quella brevità di sintesi fra un'intuizione e la sua realizzazione. E così sono sempre all'erta, sono sempre dubbioso, e quando penso di avere caricato di intensità un segno rimango nel dubbio che in realtà sia rimasta soltanto una buona intenzione. La cosa decente è che nel dipingere puoi permetterti di ascoltarti moltissimo, e trovo che questo tempo che si può dedicare a se stessi sia una bella conquista. 45

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