libro, apostrofa il ragazzo Thomas perché ricordi, dato che egli vive solo nella memoria di lui: "La morte non è una riconciliazione ... quando i ricordi sono rimasti inconciliabili". Eppure Kruschkatz, e Spodeck soprattutto, diffidano dei ricordi che, afferma il medico, "!1,onsono registrazioni obiettive, ... hanno fènditure e frattl,Jre" come "lo specchio rotto del nostro cervello". L'ex-sindaco è ancora più scettico, non 'crede neppure alla storia: una finzione il cui compito dovrebbe dare al passare del tempo un senso che permetta di comprendere e sopportare ciò che ha senso. E se nel suo CONFRONTI caso questa constatazione sarà confermata dai fatti, è bello sapere invece che "fine" fa Gertrude, "vedova" di Horn e ~•orfana" del figlio: "Sentii, al di là della tristezza e delle sciocche lacrime di una vecchia, che il mio cuore ricominciava a respirare. La gabbia di ferro, che l'aveva tenuto prigioniero per tutta la vita, si apriva lentamente ..., dischiudendomi uno spazio infinito di libertà fino ad allora sconosciuto... Avvertii in me ... la forza e la voglia irresistibile di vivere ed ebbi l'impressione di flut-_ tuare in una lontananza priva di luce e tuttavia molto chiara". Aiconfinidell'impero. Ransmayrsulle traccedi Ovidio Luca Clerici Puntuale, ci è arrivata la conferma: Cristoph Ransmayr si dimostra scrittore di classe, e la sua seconda opera, molto ben tradotta da Claudio Groff (Il mondo estremo, Leonardo, pp. 219, L. 26.000), avvince e convince. Del grande scrittore Ransmayr possiede, oltre ali' ambizione che qui lo porta amisurarsi addirittura con Ovidio, sia l'assoluta padronanza stilistica della pagina- tanto nitida, essenziale e definitoria la scrittura in L'orrore dei ghiacci, quanto ora elaborata, politonale e allusiva-, sia la capacità di impostare una vicenda di ampio respiro e di ottima tenuta narrativa conglobando e rifunzionalizzando gli svariati ed eterogenei materiali su cui poggia la stessa concezione dell'opera Notevole la sua capacità di creare atmosfere suggestive, immagini difficili da scordare, personaggi che, per quanto minori, giganteggiano almeno per un attimo nella mente del lettore. Come molti grandi scrittori, poi, Ransmayr è ossessionato da un tema e lo va riproponendo ogni volta rielaborato e ristrutturato in maniera originale e assai complessa: entrambi i suoi libri, infatti, cantano la caducità dell'uomo, invitano alla consapevolezza della precarietà dell'esistenza, umana ma anche naturale. La sua visione del mondo sembra tradursi innanzitutto in una tonalità dominante e assillante: ali' abbacinante bianco dei ghiacci succede nel Mondo estremo il buio della notte, l'oscurità dei cunicoli sotterranei che perforano la montagna di Tomi, sul mar Nero, luogo d'esilio di Publio Ovidio Naso·ne, al quale approda Cotta (il protagonista) sulle tracce del ~· 42 grande poeta romano. Si ripete così il motivo della ricerca dello scomparso, ma anche la geografia del limite, del luogo che racchiude infiniti altri luoghi analoghi a quello, dalla morfologia che si ripete all'infinito. Un limite insuperabile, condensazione fantastica della perenne finitezza di ciò che esiste a confronto con la disabitata infinità dell' universo. Tomi, luogo imbarbarito di confine dell'Impero romano, ha nella città di Limyra la sua ultima propaggine, abbandonata da tempo sot- .to il crollo della montagna: la città mineraria è ormai deserta e desolata. Ma oltre Limyra c'è Trachila, dove il tempo non solo ha divelto ogni presenza umana, ma la vegetazione spontanea e il mondo animale stanno riassimilando al terreno pietroso i resti dell'antica città:' Qui si era rifugiato Nasone, ma da qui è partito, verso altri luoghi ancora. Ha lasciato un messaggio scolpito nella pietra: "Io ho compiuto un'opera / che né l'ira di Giove né il fuoco/né il ferro né la vetustà che distrugge/ potranno annientare. / Quando vorrà, la morte che solo / sul mio corpo ha potere/ ponga fine alla mia esistenza, / ma con quest'opera/ io diventerò eterno/ e mi innalzerò oltre le stelle/ e il mio nome/ sarà incancellabile" (p. 7). Le metamorfosi, ovvero il poema della trasformazione, del mutare e del trascorrere, che però non rinuncia a fissare in modo mirabile eccezionali destini e vite straordinarie. Lo scrittore austriaco non può non sentirsi vicino al grandepoeta latino, ed ecco che proprio la sua opera costituisce il 'materiale' dal quale questa volta prende le mosse il lavoro letterario di Ransmayr. L'idea, assai ben realizzata, consiste nel far rivivere gli antichi miti classici in una civiltà -quella contemporanea- che ormai li ha dimenticati, ma che ne avverte però ancora il vetusto oscuro fascino, quasi una consonanza che risuona nella profondità antropologica di ogni uomo occidentale d'oggi. La finzione romanzesca permette di mettere in scen<!fcigure reivitalizzate di antichi eroi, ma visti inchiaverealisticaenonmitica, eroi di cui non si ricorda più il destino, che perciò sorprende, ma dei quali si avverte nondimeno l'ineluttabilità della sorte consegnata loro dal narratore. Siamo all'epoca di Augusto, ma le tele mitologiche raffigurate da Ransmayr non sono quelle botticelliane che rimandano ali' età dell'oro, al bel tempo di Saturno cantato da Virgilio, poeta dell'Impero, ma piuttosto richiamano i toni cupi di Piero di Cosimo, l'homo homini lupus, la materialistica evocazione cosmica lucreziana. Sono pagine, queste, che inscenano un universo ferino e violento, cupo e orribile, nel quale risplende la poesia delle invenzioni ovidiane. Così Procne, assassina del figlioletto Ili per vendicare la sorella Filomela, posseduta e mutilata da Tereo -il macellaio di Torni-, sfugge alla sua vendetta mutandosi in rondine, la sorella in usignolo e Tereo in upupa, uccello malaugurato; il cordaio Licaone, colui che affitta una camera a Cotta, si trasforma in licantropo ed indossa una smunta pelle di lupo quando vaga terribile fra le montagne più impervie; e Aracne, la tessitrice sordomuta della città, è artefice di mirabili arazzi che raffigurano episodi ovidiani. Tra i personaggi indimenticabili
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