"gusto mescolato di sordido e di fantastico", di cui aveva scritto Cecchi a proposito de// cieco e la Bellona, non si cancella affatto nella Scuola di ballo. Soltantocheperdelepuntemacabre e cruente per diventare insieme meno esibito e più intenso, in un•accentuazione di particolari terribili epperò quotidiani: dalla precoce, disgustosa calvizie di una bella e non più giovanissima donna di facili costumi (La parrucca), alla "carne nuda, grigia, e irrorata di vene granulose" di una vecchia semi-assiderata (La serra), o ancora agli occhi "globosi e sempre sbagliati di direzione" del "nipote della maestra" di danza (La scuola di ballo). Anche l'insistenza sui sensi e sulla sessualità, molto più accentuata nella Scuola di ballo che nei due volumi precedenti, mette in gioco una carnalità acre, mai serena e gioiosa anche quando si tratta di giovani, e sempre partecipe di tensioni e conflitti. Così per esempio nel bellissimo Il CONFRONTI muratore stanco, il protagonista non può godere appieno della fortunata visione di una bella donna nuda alla finestra, contemplata dal tetto dove sta aggiustando un comignolo, perché si rende conto che anche suo figlio la guarda dal giardino dove è stato spedito a giocare. Non è certo una preoccupazione morale che turba il padre, ma la coscienza gelosa che ormai anche il figlio è "un altr'uomo come lui". Tutto è ambivalente nell'universo carico di squallore e insieme scintillante di Loria. Viene davvero "il sospetto", a noi come alla protagonista del racconto che dà il titolo al libro, "che la bruttezza" sia ''un primo inganno di chi è veramente bello": ma si tratta di una percezione naturalmente reversibile in quella contraria. Ciò che però non sembra rovesciabile nel suo contrario è proprio la bellezza di questi racconti, finalmente strappati a una troppo lunga dimenticanza. GermaniaEst,anni Cinquanta. Ungrande romanzodi ChristophHein Maria Maderna Chi è Horn? Un uomo intransigente, "inaccessibile", di una "riservatezza scostante". Sappiamo anche che Horn "non sapeva vivere. Non era adatto ad una vita di relazione". Oppure che era "una di quelle persone che ... per la loro ostinazione finivano per cadere dalla padella nella brace ... Avrebbe vuotato l'amaro calice fino in fondo se fosse stato convinto che quello era il suo dovere". Sono i giudizi di tre dei cinque "protagonisti" di La fine di Horn, il romanzo che il tedesco-orientale Christoph Hein ha scritto nell' 85 (traduzione-ottima anche per il sapore di antico che contribuisce a dare -e postfazione di Fabrizio Cambi, e/o, pp. 186, lire 24.000). O almeno: protagonisti dei rispettivi monologhi interiori che dovrebbero fornire, alternandosi in modo però non ordinato, questa "foto di gruppo con signore". I vari episodi in cui ognuno dei cinque prende la parola sono legati per l'appunto, in un frammentario real time, dalla morte di Horn , che costituisce così la molteplice e convergente traccia narrativa delromanzo.LafmediHornèundrammatemporale e corale, allora, in cui gli interventi sono raccordati tra di loro da segni e riferimenti puntuali, ma sono anche autonomi. È l'estate del '57, in cui riecheggia la stessa, per noi poco credibile, "calura feroce" della Recita estiva di Christa Wolf, e il ritornello "Da quanto tempo non avevamo un'estate così!" diventa quasi, teatralmente parlando, un "tormentone". Un'estate come svolta epocale, suggerita anche dalla natura: infatti, caso strano, dalla morte di Horn, gli zingari non faranno più ritorno al paese di Bad Gulden)Jerg. "Un insediamento di rimbambiti", "una città miserabile per una fine miserabile": così dice Kruschkatz, l'ex-sindaco, che anni prima Foto di Basso Connarso. si era reso responsabile dell'espulsione di Horn dal partito. Kruschkatz rileva come Horn "non avesse dimenticato e non avesse imparato nulla": scriverà un saggio che verrà tacciato di revisionismo e non sopravviverà al)'inchiesta, al suo secondo processo. Una cittadina di provincia ben lontana dalla "pienezza" della vita di campagna come ce ne riferiva laWolf ma un paese, pure, che "taglia ... fuori e vive la sua vita enigmatica". O, come la descrive più prosaicamente Hein, un luogo in cui regnano l'avidità, l'invidia, il piacere della delazione, e un gusto pronunciato per le virtù borghesi. Un giudizio paradossale - eppure vero, ci insegna l'autore -per chi aveva condannato Horn, accusandolo di "meschine concessioni all'ideologia borghese". Su Guldenbcrg scrive una storia il dottor Spodeck, assediato dal "fiume di parole" della moglie bigotta e delle "chiacchiere affettate" della figlia ("che promette di diventare un'altra grande ipocrita") e guidato dall • odio sconfinato per il padre, un odio che in realtà, ammette lui stesso, gli è servito solo a giustificare il fallimento della propria vita. Ciò che Spodeck annota sono unicamente "gli affari abietti e le azioni malvagie in cui si sono distinti gli onorati concittadini". È una storia della bassezza umana, scritta "come le maledizioni dei profeti dell'Antico Testamento", ma anche "con lo sguardo chiaro ed integro del vecchio cronista senza odio e senza passione". , È così che vorrebbe scrivere Hein, ma forse lo fa con un po' troppo odio, anche solo nei confronti di quelle che laWolf chiamerebbe "le piccole e grandi manovre per nascondersi a se stessi ed agli altri". Non pretendiamo di avere a che fare con il gruppo descritto dalla Wolf che, pur se attraversato da screzi e incomprensioni, "quando si incontrava ne risultava sempre una festa", ma nell'inferno che Hein ci presenta ogni situazione è già fin dall'inizio senza via d'uscita, tutto, ma proprio tutto, va quasi prevedibilmente per il verso sbagliato; nel modo, ingiusto ma forse azzeccato, che italianamente definiremmo tipico di un romanzo "menagramo". Una spia importante è anche il termine "noia", il cui uso e abuso (Horn a Spodeck: "Non sto litigando con lei. Mi annoia, dottore") cela paura, maè anche dimostrazione di superiorità, arma sofisticata. Tutti sono impegnati a comportarsi "come se", a far cose nella massima noncuranza e indifferenza (Spodeck: "Quando mia moglie espresse il suo rincrescimento per la perdita di Horn con parole vuote e insignificanti ... io, per rispetto del morto, con un lento movimento del pollice sollevai il bordo della scodella piena di minestra che si versò completamente sulla tovaglia colorandola di giallo". Wow, che coraggio! O che noia?). Tutto, gli amori negati, i gesti quotidiani esasperati, i riti di approccio sempre violenti o fallimentari, vuole avere la forza perentoria di un simbolo inquietante. È un mondo visto certamente con coraggio, intensità e rigore, ritratto da un autore impietoso che . ci mostra squarci pietosi eppure "veri" (ma nei cui confronti, per esempio nel caso dell'opera precedente, L'amico estraneo, già provavamo un vago fastidio: di fronte al minimalismo del nulla, sofisticato ma senza corpo, raffinato ma senza vita). Hein si inunedesima bene nei vari personaggi, tutti dediti ai loro "esercizi di lucidità", come Ii definirebbe la Wolf (tranne che in quello di Marlene, un po' troppo stretta nella figura della folle veggente in un universo di folli). Nel romanzo, come avverte anche Fabrizio Cambi nella postfazione, è riscontrabile una poetica del ricordo. Non è "lo struggimento forte e doloroso che mantiene vivi ... i giorni" dell'estate descritta in Recita estiva. Kruschkatz ammette che potrebbe ricordarsi di ogni minuto, ma anche che "una straordinaria capacità mnemonica ... non è un beneficio della natura ... È una dote tanto più inutile quanto più raramente se ne riscontra la possibilità di applicazione". Eppure la voce della coscienza di Horn, nelle "introduzioni" ai vari capitoli del 41
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==