fondazione di un solo partito di sinistra, comunisti, socialisti e socialdemocratici ..." Per darne prova l'antologia degli Editori Riuniti riporta nella "sezione politica" accanto a uno scritto di Togliatti sulla legge truffa e a un altro di Ranuccio Bianchi Bandinelli (un appello agli intellettuali in occasione del convegno dei popoli per la pace a Vienna) alcuni tra i testi che andarono a comporre due lunghi dibattiti, il primo sulla "terza forza" nella primavera del '53, il secondo sull'anticomunismo, un anno dopo. Gli interventi furono, tra gli altri, di Norberto Bobbio, Eugenio Garin, Arturo Carlo Jemolo, Antonio Delfini, Franco Antonicelli, quindi Giacomo Noventa, Franco Fortini, Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, Sergio Solmi, Piero Jahier, Aldo Capitini, Tristano Codignola e (attraverso un'intervista) don Primo Mazzolari. Tra le due date corre la sconfitta della legge truffa e del progetto degasperiano di stabilizzazione del blocco conservatore. Dopo un tentativo di normalizzazione in senso integralista, sembrava che di nuovo tutto, nella politica e nella cultura, si potesse rimettere inmoto lungo una strada che avrebbe dovuto aggirare qualche muro, ristabilire insomma le condizioni di incontro tra le aree diverse e prima contrapposte della società italiana. Il dibattito sull'anticomunismo misura quest'aria nuova, prendendo in considerazione le varietà dell'anticomunismo, rifuggendo una definizione ideologica e liquidatoria, anch'essa integralista quanto una scomunica degasperiana. Ali' anticomunismo si riconoscono motivazioni ideali, culturali, storiche. Bobbio scrive che "con le crociate non si costruisce la democrazia", Garin che va ricostruito "un nuovo dialogo nella concordia discorde".-Per Sergio Solmi il comunismo "è il fatto centrale della storia moderna ... Per questo il dialogo con i comunisti si impone come necessità improrogabile ... La libertà può garantire 1'autenticità dell'esperienza comunista". Aldo Capitini, di fronte alla minaccia della divisione mondiale nei due blocchi militari, scopre che "lavorare per un 'unione religiosa di tutti coloro che rifiutano decisamente la guerra" riduce lo spazio all'anticomunismo e al comunismo, alle "chiese", come nelle stesse pagine aveva annotato Arrigo Cajumi. Con questo spirito, mi sembra, s'arrivò alla conclusione. Un articolo, riportato, di Bilenchi spiega molte cose. È datato primo luglio 1956 ed è intitolato / morti di Poznàm. Da rileggere, perché afferma l'idea della universalità della oppressione e della lotta per una società "più giusta e più libera": "/ morti di Poznàm sono morti nostri ... Vogliamo dire che essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera ..." Un mese dopo "Il Nuovo Corriere" chiuse e Bilenchi scrisse il congedo: "Abbiamo lavorato per un colloquio tra le forze di sinistra e le forze cattoliche perché crediamo in una unità nazionale da cui sarebbe folle volere escludere il movimento socialista nella sua interezza così come il movimento cattolico nella sua fisionomia di movimento politico e spirituale a cui aderiscono milioni di uomini, che hanno le più CONFRONTI Bilenchi nel 1949 (orch. Giovannetti). sacrosante istanze di lavoro, di giustizia, di democrazia e di pace". Per spiegare la morte del "Nuovo Corriere", il volume degli Editori Riuniti s'affida alla prefazione dello stesso Bilenchi, che rifà la cronaca di quei giorni con puntiglio e senza astio. Parla di difficoltà economiche, ma anche di buone tirature e dell'offerta pubblicitaria di Enrico Mattei (rientrata dopo un fondo su "L'Unità" di Amerigo Terenzi che accusava duramente l 'Eni di non concedere pubblicità a tutti i giornali di sinistra). Conclude Bilenchi che una sanzione politica ci fu, ma non di Togliatti, bensì degli stalinisti e dei conservatori. Il tono di Bilenchi resta pacato.Non altrettanto lo fu in una pagina di Amici, nel capitolo Vii/orini a Firenze (pubblicato per la prima volta nel 1972). Rispondendo a una lettera dell'amico, che riferiva di una voce che lo voleva nuovo direttore di "L'Unità", Bilenchi ricordava d'aver concluso che "non ero affatto d'accordo sulla soppressione del "Nuovo Corriere", che avevo lottato per salvarlo, che tutto l'affare era stato condotto inmanieia a dir poco losca e inumana. Altro che direzione de "L'Unità"! Mi andavano a diffamare per tutta la Toscana con sistemi schiettamente staliniani ...". Quanto alla responsabilità diretta di Togliatti, Bilenchi avrebbe dovuto ripensare alle ragioni per cui gli era stata tolta di mano la rivista "Società". A noi resta la lettera del segretario del Pci, dove s'accusa addirittura Bilenchi di diffamazione, negando qualsiasi contrasto d'ordine politico, accusando l' accerchiamento delle forze reazionarie, la loro lotta contro il Pci e contro la libertà di stampa (mentre "Il Nuovo Corriere" aveva raggiunto cinquantamila copie di tiratura al giorno e aveva guadagnato trenta milioni di pubblicità dell'Eni). In aggiuntasi può rivedere una circolare ciclostilata del Pci di Santa Croce sull 'Arno che esordisce: "Cari compagni, con il primo agosto il "Il Nuovo Corriere" non è più un giornale sostenitore dei giornali di sinistra e delle organizzazioni di massa unitarie ...". Un commento all'intera vicenda spettò a Piero Calamandrei (su "Il Ponte", agosto-settembre 1956), che sottolineò la contraddizione tra una Costituzione che stabilisce la libertà di stampa e i soldi che mancano per realizzare questo diritto ("il diritto di circolazione nell 'opinione pubblica è garantito soltanto alle idee che si appoggiano sul denaro"). Ma aggiunse anche una accusa al centralismo romano, al Palazzo d'allora, che non tollera voci periferiche, ma vuole dirigere e controllare tutto. E finì chiedendosi perché, se le difficoltà della stampa comunista erano così gravi e l'accerchiamento così virulento, cominciare con i tagli dal giornale più vivo. Il ·titolo dell'articolo era Autolesionismo?. La documentazione finisce qui e i curatori dell'antologia, purtroppo, n·on aggiungono altro. Ma, a questo punto, che importa? "Il Nuovo Corriere", letto oggi e soltanto oggi, lontano dal clima forte e combattuto d'allora, può rientrare solo nel conto delle occasioni perdute. Anche per Firenze e per la sua cuitura, che da allora cominciarono a declinare. Non è un giudizio storico (come non lo è quello spocchioso e irritato, offerto da Alberto Arbasino su "Repubblica": per lui quelli del "Nuovo Corriere" erano tuttiprovinciali,mentre la cultura vera si formava sulla stampa estera e i suoi amici colti viaggiavano tra Parigi e Zurigo). Sarà forse l'emotività d'occasione, di fronte ai salti e ai cambiamenti visti in Europa, annunciati in Italia (ecco quando e dove cercare miserie provinciali), a farci pensare quanto s'era avanti allora e quanto fosse avanti per lo meno la società degli intellettuali, e quante responsabilità avessero i partiti nel bloccare, nell'impedire, nel frenare ciò che lontano dal Palazzo s'avvertiva e magari si sarebbe potuto affermare. 39
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==