Linea d'ombra - anno VIII - n 45 - gennaio 1990

Poeti morti e P.Oetiuccisi. la Rossandarilegge Kleist Maria Schiavo Che i poeti fossero da tantissimo tempo morti lo sapevamo più o meno tutti, e da tantissimo tempo. Eppure, ogni volt'a che qualche episodio particolare ce lo ricorda, lameraviglia è sempre quella di una recente e dolorosa scoperta. Non è facile dire con esattezza quando si è estinta questa figura pubblica che in passato riuscì a coltivare con onore la forza della propria debolezza. Ma, nonostante qualche degno e degna erede, che ha proseguito lodevolmente il compito, in mezzo ad inenarrabili stenti, si può forse dire che gli ultimi poeti, almeno per l'intensità del presentimento della fine (e forse per questo, in un certo senso, i più depravati) sono stati Arthur Rimbaud ed Emily Dickinson. Il primo, che quasi profeticamente riesce a creare un epitaffio indimenticabile: Par délicatesse j' ai perdu ma vie l'altra, certamente più sommessa e dimessa, ma non per questo meno capace, dal suo eremo, di farci ammutolire con imbarazzanti domande, tratte dal repertorio della vita quotidiana sguinzagliata nell'eternità: I' m nobody! Who are you? Are you -Nobody- too? Oggi che i poeti sono morti, di poesia si occupano tutt'al più i professori universitari che, tra Heidegger e Gadamer, per somma beffa, dal momento che i poeti non ci sono più, per consolarci ci rivelano che la poesia non è altro che la nostra terrestrità come presagio del nostro essere mortali, che la parola del poeta (ammutolita più che ammutolente) non è altro che l'elevazione, pietra su pietra, di un monumento funebre neoclassico. Oggi che i poeti sono morti, di poesia si occupano tutt'al più registi come Peter Weir, presentandoci addirittura la Dead Poets Society, riuscendo a citare Whitman (OCaptain! My captain!) e persino il contemporaneo Robert Frost, nientedimeno che · per prelevare tutti i poeti morti e far brillare l'eversione della poesia in un college americano, dove il cuore pedagogico di un maestro parla aidiscepoli, che recepiscono come possono e mimano l'anticonformismo come uno spettacolo americano, lucido e ben confezionato, può oggi consentirlo: si sale sui banchi per liberare il corpo dal pregiudizio, ci si ritrova di notte nel bosco e si muore quasi sul palcoscenico, a causa del palcoscenico, coronati da una neoclassica coroncina d'alloro. D'accordo, si dirà, ma così va il mondo, e confortati da un altro illustrissimo poeta morto, si finirà per citare: Sopportare dobbiamo di andar via di quaggiù, come di venirvi. 28 Heinrich von Kleist. Maturarè: maturare è tutto. insistendo proprio sul concetto di maturità per fare intendere, una volta per tutte, che gli umori bizzosi hanno fatto il loro tempo e appartengono all'infanzia del mondo. Ma, noi, non certo dai furbi attendiamo rispetto per quei poveri morti, non ci meravigliamo, anzi nient'altro ci aspettiamo che questa loro astuta capacità di far brillare la morte dei poeti, evitando con cura che appaia qualche barlume di resurrezione persino dai testi. Pace, dunque, per i furbi che innalzano monumenti funebri. Ma gli altri? le altre? quelli e quelle che ancora credono nella rivoluzione, che nel linguaggio di Rimbaud suonerebbe "Il faut changer le monde"? Proprio per questo, proprio per l'estrema difficoltà di richiamare in vita quei poveri trapassati, senza corone e ornamenti che non sappiano troppo di morto, proprio per questo, dai rivoluzionari e dalle rivoluzionarie di professione, quando si chlnano ad ascoltare la debolissima voce che viene da quei defunti, ci si aspetterebbe che si inchinassero almeno con la stessa umiltà con cui Freud era uso inchinarsi dinanzi alla sapienza dei poeti, piuttosto che tentare di far dire ai poeti cose che il maestro viennese confessava di aver appreso, formulandole inmodo più schematico e imperfetto, dalla loro sapienza! Queste ultime riflessioni sono suggerite dallo strano rapporto che Rossana Rossanda intrattienecol defuntopoeta HeinrichvonKleist, di cui ha tradotto egregiamente La marchesa di O., nella lunga introduzione a questo racconto. Se questo rapporto non fosse mortifero, se non zittisse la voce di Kleist, piuttosto che farla sentire, forse non varrebbe la pena di aggiungere qualcosa. In questo caso, vale la pena, giacché constatiamo sempre più spesso, anche a sinistra, un uso mortifero della psicoanalisi, una specie di regolamentazione dei fatti dell 'anima (o della psiche, se si vuole togliere l'alone metafisico che si trascina dietro l'altra parola). È la cattiva tendenzadell 'illuminismo, che così bene hanno individuato Adorno e Horkheimer, ahimé senza riuscire a fermarla. Tornando al caso della Marchesa von O., che cosa fa Rossana Rossanda? La sua clamorosa forzatura del testo di Kleist consiste nel fatto che, nonostante la costante ambiguità del racconto, dall'inizio alla fine, la signora Rossanda vuole a tutti i costi offrirci il ritratto di una marchesa che non ha subito nessuna violenza. Come lo spiega? Semplicemente, ricorrendo a Freud, con un processo di rimozione. Per chi non ricorda la storia si tratta di ' questo: il conte F., durante l'assedio di una fortezza (da non dimenticare, nel dipanarsi della vicenda) salva da sicuro stupro la Marchesa von O., figlia del comandante della fortezza, sottraendola alla soldataglia in fregola. Di qui inizia il punto controverso: la Rossanda sostiene che la Marchesa, superando velocemente e felicemente il trauma dello scampato stupro e vedendo, anche se un po' obnubilata, un così gentile cavaliere (tra l'altro, espugnatore della fortezza di suo padre, quindi vincitore in assoluto, oltre che salvatore), attraverso il vorrei e non vorrei della semincoscienza, scivola tra le sue braccia altrettanto vogliosamente di lui; ma la sua squisita moralità le impedirà, aposteriori, di confessare a se stessa l 'accaduto, portandola a rimuoverlo. Ecco quale interpretazione ci .consegna Rossana Rossanda. Interpretazione democratica ed aristocratica ad un tempo, se riesce a fare 'di una vinta, salvata in extremis da stupro, una pari del vincitore-espugnatore-salvatore. Democratica ed aristocratica ad un tempo, perché incapace di sostenere la realtà brutale dei fatti (cui Kleist accenna ambiguamente, sì, ma costantemente) vuole a tutti i costi, attraverso l'affermazione di questa parità, fare di un incontro dalla violenza contenuta e celata una specie di incontro tra due anime belle, che si piacciono fin dal primo momento, ambedue nella stessa condizione, sfiorate allo stesso modo dalla bestialità della guerra. Si nota con piacere, insomma, che il materialismo (in questo caso anche la materia del. testo) non ha vita facile. Sicché, che la nobildonna di una fortezza assediata ed espugnata da un Conte russo venga da costui sottratta e salvata, ma ançhe, date le condizioni, come negli antichi miti, violata, tutto questo non ha alcuna rilevanza nell'interpretazione di Rossanda, cui preme solo di dirci, scomodando il meccanismo della rimozione, che anche le donne, come gli uomini, hanno una sessualità. Bella scoperta per una materialista! Urge forse una rilettura dell'opera di Luce lrigaray, oltre che di tutta la storia delle donne.

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