CONFRONTI sinagoga, che nel paesino era casa del popolo e non solo tempio, prima e dopo i momenti di concentrazione sui testi sacri non si parlavache in yiddish. Sulle origini di questa lingua, scrive Mosé Beilinson (in un saggio pubblicato da Feltrinelli nel 1980 come prefazione alle Novelle ebraiche di Peretz): "A contatto con la popolazione cristianacheparla le linguegermanic~. gliebreiadottanoi suoi dialetti come lingua d'uso". "Un vernacolo della Germania meridionaledelTredicesimosecolo", precisa Eban. Poco a poco, ·questo idioma segul una via propria. Secondo Beilinson, "gli ebrei,segregatidallapopolazionecristiana,conservanola lingua germanicanella/orma cheavevaal tempodellaseparazione". Gli ebrei dell'est europeo vivevano per lo più concentrati in località di cui erano gli unici abitanti, o quasi; quando furono poi istituiti i ghetti, lo stesso fenomeno del forzato isolamento è avvenuto anche nelle grandi città. L'yiddish andò sviluppandosi e allargando progressivamente · l'area della sua influenza. All'antico dialetto tedesco di base si aggiunsero parole in ebraico e, via via, altre delle lingue parlate nei paesi di residenza, polacco e russo soprattutto. Per parecchio tempo, le classi colte ebbero verso l'yiddish un atteggiamento sprezzante; esse leggevano in ebraico, la cui utilizzaziona diventava però sempre più difficile per comunicare con i vicini: L'yiddish, adottati i caratteri ebraici per la scrittura (con una grammatica molto più semplice di quella dell'antica lingua nazionale), guadagnò i favori dei miseri artigiani, operai, rivenditori ambulanti, insomma del mondo dello schtetl. Adoperato all'inizio per tradurre ad uso soprattutto delle donne, a c_uiil culto precludeva l'accesso all'approfondimento dei libri sacri, "scritti edificanti,maancheraccontieaneddotipopolari" (Eban), divenne la lingua abituale degli "uominisempliciche nonavevanoné culturané possibilità materialeper dedicarsiallo studio della letteraturaebraica" (BeÌlinson). E in questa lingua si trasferì l 'umoris_moamaro di quei poveracci perennemente alle prese con le difficoltà di sbarcare il lunario, oltre a sopportare il peso della venerazione obbligatoria di Dio in ogni momento, dentro il cerchio eretto attorno a loro dalla società circostante. Proliferano così le battute di spirito, le storielle riguardanti immaginari personaggi capaci di aguzzare l'ingegno al punto di ottenere risultati fantastici, considerazioni autoironiche, il vitz (la barzelletta), tutti pretesti per il riso in mancanza d'altro che rallegrasse la nera esistenza di fame e aggressioni. L'yiddish si diffuse enormemente nella seconda metà del secolo scorso, anche grazie a un'accresciuta e riverente attenzione verso le forme della vita popolare in seguito ai linciaggi collettivi scatenati in Russia contro gli ebrei, i "pogrom". Dotato ormai da tempo di strutture e regole di lingua autonoma, perfino assurto già cent'anni prima agli onori della carta stampata, portò nei borghi e ghetti dell'est le idee d'emancipazione sociale che stavano nascendo nel continente. E fu soprattutto arricchito, allora, dalle espressioni e dai modi sintattici coniati da scrittori di qualità. Quei narratori, figli delle stesse popolazioni umili a cui si rivolgevano, erano per lo più inclini a un realismo romantico. Raccontavano quasi esclusivamente vicende basate sulla vita dei semplici, dei poveri, e avevano spesso anch'essi il gusto del paradosso eh' era caratteristico dei personaggi reali a cui s'ispiravano. Scholem Aleihem (uno pseudonimo che è l'abituale formula di saluto in yiddish, "la pace sia con voi", alla quale si risponde con le stesse parole rovesciate, aleihemscholem) diede spessore letterario all'umorismo popolare. Prolifico autore di racconti, il suo Tewie il lattaio -com'è stato tradotto in italiano- si chiama in realtà Tewieil latteo; nel suo testamento lasciò due indicazioni: 24 che lo seppellissero "nonfra i ricchimafra gli operaie la gente comune" e che se mai i posteri avessero voluto rendergli omaggio non facessero altro che leggere davanti alla sua tomba qualche brano da lui pubblicato per ridere un po' in quel luogo così triste. Lo scrittore Méndele Moiher Sforim (Méndele-venditore-dilibri, come si firmava un insegnante elementare che fuori dal lavoro trascinava un carretto pieno di volumi da offrire in giro) fu un autentico purificatore della lingua. Anche Itzhak Leibusch Peretz, Scholem Asch, qualche altro autore di rilievo, erano tutti operai o piccoli impiegati o venditori ambulanti. Attraverso l'yiddish si divulgarono l'ideale anarchico, il sionismo, le proposte marxiste; per lottare a favore del socialismo si costituì un partito ebraico, il Bund, che naturalmente si esprimeva in yiddish. Ci fu una corrente di pensiero, l'yiddishismo, che contrastava il progetto sionista di ripristinare l'uso dell 'ebraico come lingua di tutto il popolo disperso in vista della rinascita nazionale. Quel mondo di sognatori e lottatori politici e filosofi veri o presunti ribolliva di iniziative culturali, rivalità ideologiche, movimenti proiettati verso la costruzione di un mondo migliore. In Polonia, i tre milioni e mezzo di abitanti ebrei avevano in ogni città di media importanza almeno un quotidiano in yiddish, nei primi anni del Ventesimo secolo; a Varsavia se ne pubblicavano sei. Era intanto cominciata la grande emigrazione. Comparivano nel continente americano le prime pubblicazioni in yiddish, lingua pure studiata da qualche idealista come l'anarchico Rudolf Rocker (non ebreo) per poter trasmettere il suo pensiero ai lavoratori immigrati negli Stati Uniti. Nell'Europa orientale, 1a lingua, ormai esportata anche oltre l'oceano, con il passare degli anni andò riempiendosi di parole imposte dall'incombente minaccia di sterminio. Molte esprimevano la volontà di andarsene lontano, altre comparvero per la prima volta in questa lingua durante i preparativi nei ghetti polacchi delle rivolte armate contro i nazisti. Destino tragico e malinconica agonia, oggi, dell'yiddish. Restano sempre meno vecchi per leggere i suoi giornali che ancora si stampano nel mondo, un quotidiano e un paio di mensili in Israele, un quotidiano a Parigi, uno bilingue a Buenos Aires, una rivista a New York e una a Mosca. In Israele, nei primi anni d'indipendenza, la gente evitava di parlare in pubblico questa lingua che ricordava lo stato di soggezione vissuto nella diaspora (mentre dentro casa e anche nel chiuso delle discussioni tra governanti l'yiddish si presentava se non altro in qualche frase detta per essere più incisivi nel discorso). Ora la cultura yiddish è oggetto di studio in giornate internazionali di critica letteraria e in qualche università del mondo. Non si usa più per comunicare, però, il "linguaggio della mamma". L'abitudine di Bashevis Singer di scrivere in yiddish per poi essere tradotto è una rarità. In Argentina, quelli che da ragazzini erano felici quando si andava in qualcuno di quei teatri poi chiusi uno dopo l'altro, oggi sono contenti di sentire spesso un non ebreo che introduce nel suo spagnolo quotidiano la parola tùhes (culo). Negli Stati Uniti fanno addirittura parte del gergo newyorkese alcuni termini come schmate (straccio) o schmok (cazzo). Ma fin dove arriva a comprendere, come può, chi non conosce l 'yiddish, interpretare in profondità i problemi piccoli e grandi dei personaggi di Philip Roth? Peccato, per questo lettore. Per ... quasi tutti i lettori. È proprio così. Si sa che lo spirito del vecchio villaggio ebraico europeo era presente nelle gags dei fratelli Marx, in qualche musical di Broadway, nei folli scioglilingua di Danny Kaye, e oggi impregna l'umorismo di Woody Allen. Ma questi sono soltanto segni lasciati da chi non c'è più. La "civiltà dello schtetl" è scomparsa e la sua è una lingua morta.
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