IL CONTISTO dell'informazione e nella borsa dell'opinione. L'immagine del Pci invece è diversa a partire dallo spessore, da una specie di arcaica e parziale tridimensionalitf!. che serve a portarsi dietro e dentro proprio la questione del sentimento; per questo è spesso a sua volta delegata a rappresentare l'immagine stessa della politica nella sua forma e condizione più viva e vitale, quella che arriva ali' impegno, ali' abnegazione, alla fede. E comunque, anche se lo stereotipo della politica è oggi divenuto più compassato o più calcolatore, è vero che l'immagine dei comunisti e del comunismo italiano supera ancora e sempre il maquillage, arriva almeno all'abbigliamento: è forse la sola a essere ancora indossata come fosse un'identità. Su questa "identità" è rifluito e si è attestato l'antico calore emotivo: il sentimento tante volte rimproveratò e autÒCriticato ha perso lo spazio e la libertà di una sua passionale circolazione, si è come coagulato ed è passato a colorare l' immagine. E per quanto limitato e sgradevole possa sembrare, questo ematoma è tutto quello che è consentito dalla modernizzazione, dalla laicizzazione, dalla yuppizzazione della attuale cultura politica e dalla sua forsennata attività amministrativa. · In particolare nel simbolo del Pci démodé e ferrigno, ultima traccia del lavoro manuale e dell'archeologia industriale, ma soprattutto nel nome "comunista" si è andato a collocare e a rapprendere quel misto di entusiasmo e di disponibilità che caratterizzava la "militanza"; quel nome e quel simbolo hanno assunto il compito di trasmettere come un' informazione genetica di diversità, mentre i comportamenti, i valori, le scelte si sono adeguate e modellate sul piano necessario della tattica. Finchè reggeva quel simbolo tutto poteva diventare tattica, anche la strategia, anche il ricambio o la revisione ideologica. L'orgoglio dell'identità Non è un problema di Storia, ma l'esito di un processo di trasformazione recente della cultura politica, cui i comunisti - come tutti gli altri - si sono sottoposti, a caricare di importanza eccessiva il nome e il distintivo. E i comunisti-più degli altripagano o pagheranno caro la perdita del nome, in ragione dell 'importanza - anche soggettiva - della loro "diversità". Non è un caso che soltanto a loro è stato richiesto. Loro sentono che quelli (o quella realtà) che li spingono a questo sacrificio, sono contro quella diversità su cui si ostinano. Una diversità che è restata appesa all'immagine, che permette di esibirla o viverla come un 'identità, perché mantiene lo spazio per una tensione ideale ed emotiva o appena soltanto per la sua memoria. Gli altri sembrano aver superato da tempo questa equivoca situazione, non vedrebbero così grave, soprattutto, e vedrebbero conveniente il q1mbiamento del simbolo e del nome;la modifica cioè dell'immagine. Finalmente anche per i comunisti è così - nei fatti-, ma evidentemente non è ancora un dato passato nella loro cultura se, talvolta ... "basta la parola!" E dev'essere importante anche per gli altri quell'ultima parola che funziona da· contrassegno e sulla quale si basano le possibilità di connotazio- . ne e riconoscimento di molte altre definizioni partitiche, di molte altre parole politiche. In fondo è per via di questa minaccia al vecchio obsoleto ma non ancora sostituito Nocabolario di simboli e di parole d'ordine, per questa perdita complessiva dell'intero presepe politico dell'Italia Divisa di un tempo, è per questo che il dibattito sulla probabile fine del nome "comunista" interessa la chiacchiera di tutti e non solo la discuss~one politica (e sentimentale) di un partito. Solo così si spiega l'invadenza dell'incoraggiamento al "sì", o la partigianeria della conservazione del "no", cioè la stupefacente mobilitazione e partecipazione fuori dal Partito al test proposto da destra alla "svolta", mentre non è altrettanto limpido l 'interessàmento per la difesa della tradizione da parte dei lettori e tifosi del "Manifesto", degli insegnanti ex-extraparlamentari, • dei piccoli allievi-à-penser del rinnovamento e di molti ex-disimpegnati e disoccupati della po\itica. II loro "no" tanto perentorio quanto "esterno", talvolta di occasionali e infedeli elettori nemmeno troppo simpatizzanti, fa pensare. Non è il rifiuto o il dubbio dei vecchi leader storici o dei militanti più datati o più di periferia; eppure come quelli anche questi si appellano all'Orgoglio e alla Storia come per uno strano transfert, o meglio come per confessare l'esistenza di una sotterranea continua delega al Pci, evidentemente sempre considerato in comoda funzione patema. E forse, perché no?, autoritaria. Intanto per tutti, iscritti e coscritti del dibattito obbligatorio, il cambio del nome è un dramma che ha forse una facile spiegazione, ma di difficile accettazione. Non è soltanto un problema di muro o del socialismo reale che ha dichiarato fallimento, né delle vergogne o dei delitti che si cqmpivano contro la libertà e, molto più gravi, contro l'uguaglianza. Certo l'occasione e la sorpresa della presa d'atto autocritica e popolare dell'est, ha rotto anche per gli ultimi kabulisti l'incantesimo della disinformazione voluta o l'alibi delle note d'agenzia Tass. Ma è vero che da molto tempo la distanza con l'est e il suo interminabile stalinismo è motivo di orgoglio per i comunisti italiani (anche un po' troppo enfatizzato e soprattutto troppo smemorato per essere così strombazzato). Non è nemmeno un problema di anticapitalismo da difendere e magari collocare nella terza via, nell' eurotentativo o nel governo ombra. · Il Pci ha già attraversato il compromesso storico, il governo di unità andreottiana, ha cogestito le ultime crisi e austerità, ha scelto là Nato e l'Occidente, ha progressivamente trasformato la sua definizione di "progresso" fino a farla in larga parte coincidere con quella delle forze della reazione di ieri, è stato l'ultimo partito a comprendere il segno anticapitalista del '68 e del '77 - se mai c'è riuscito - e dei giovanilismi, dei femminismi e degli ecologismi, è stato il censore di tutti i movimenti, di tutte le aperture, di tutte le eresie ... salvo recuperarle in ritardo sotto forma di riciclaggi, di candidati ed elettori, previo processo di istituzionalizzazione e di allineamento. Il centro del problema è invece proprio quello di chi si ritrova al termine di un processo di omologazione cui, per amore del progresso e del realismo, non si è opposta mai resistenza e forse nemmeno coscienza. Adesso dall'omologazione si deve passare all'analogia e questo sembra troppo, ma è ancora una volta una reazione "sentimentale". Magari allora si cogliesse l'occasione per fare del sentimento, della tensione, un valore invece che una vergogna; magari.si avesse l'opportunità e la forza di considerare quel trascurato e svilito "patrimonio" che sta dietro e dentro la paura di perdere questa strana e antistorica "identità". Ma in che consiste quel patrimonio che sembra ridotto a una sigla e racchiuso in una parola, ed è il solo apprezzabile segreto della identità politica d'antan? Non è certo il prodotto di una storia di cui andare orgogliosi, quando. "comunista" era lo stemma e lo stigma di una contraddizione tra passione e prepotenza, tra speranza e menzogna, tra tanti sacrifici e altrettanti misfatti, che ha segnato gli ultimi quarant'anni di storia italiana e che tutto sommato non suscita onesti rimpianti ma qualche, spesso disonesta, nostalgia. È che dentro, ma anche fuori di quella storia la parola comunista è stata ed è una delle più belle, proprio perché non è radicata ed ereditata dal passato,' ma proiettata e fondata nel futuro. Non è "comunista" la parola inadeguata ma i molti che hanno voluto inverarla o sfruttarla, non importa se tutti in buona fede o con le migliori intenzioni. Non c'è d'andare orgogliosi del proprio passato da comunista, in nessun caso questo orgoglio sarebbe possibile: nessuno può dire di averla vissuta, ma semmai testimoniata o soltanto attesa. Né è vero che questa parola
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