Linea d'ombra - anno VII - n. 44 - dicembre 1989

MUSICA ri", dentro un periodo, gli anni Sessanta, in cui alle sicurezze imbecilli dell'ufficialità canzonettara i cantautori avrebbero contrapposto l'alternativa del dubbio esistenziale. Terzo e ultimo dato, questo senza mezzi termini orrendo. È comparso da non molto in libreria un robusto, ma solo per il peso, volume di Gianfranco Baldazzi,La canzoneitalianadelNovecento (editore Newton Compton); l'autore, non contento di aver ricalcato in modo pedissequo, per cirèa un terzo del libro, i contributi "storici" di Gianni Borgna, ci vuole pure insegnare che da circa il 1974 in poi sono apparsi in Italia numerosi "cantautori impegnati", i quali risponderebbero ai nomi di De Gregari, Dalla, Guccini, Venditti, Vecchioni, Bassignano (?), Branduardi, Maolucci, Bertoli, Finardi, De André, Conte e Gaber (cfr. pp. 205-206). Cioè tutti, o quasi tutti, gli italiani che nei Settanta cantavano con un minimo di successo composizioni proprie, pizzicando al tempo stesso una chitarra o strimpellando un piano. La storia è quella cosa che si scrive e si riscrive. Ma nessun Grande Fratello riesce a farmi credere che i signori ricordati sopra, tutti rispettabilissimi in quanto a intenzioni personali, e anzi qualcuno (pochi) veramente importante, abbiano svolto un ruolo decisivo e progressivo dal punto di vista - nell'ordine - musicale, del costume, politico. Parliamo di musica, tanto per cominciare. E, visto che di storia si tratta, è il caso di ricordare che i cantautori hanno indirettamente contribuito ad affossare, proprio con il loro successo, quanto di alternativo la musica giovanile aveva proposto nel corso degli anni Settanta. I discografici, in una certa fase, hanno puntato quasi esclusivamente sui cantautori che, rispetto a un gruppo rock, hanno una scarsa autonomia musicale e produttiva, soprattutto in sala d'incisione; il "complesso" ha certe idee compositive e timbriche, e vuole che siano rispettate; il cantautore no. Lui, arriva con la sua chitarra e la sua canzone, e tutto il resto glielo si costruisce sopra, tanto più che fare così costa meno, ed espone a un numero minore di problemi gestionali. Inutile continuare ad argomentare: quanti cantautori sono sopravvissuti agli anni Settanta? e quanti gruppi? E poi, a dirla tutta, quella del cantautore medio non è, nel modo più assoluto, mai e poi mai, buona musica. L'eclettismo cantautorale ormai tutti dovrebbero conoscerlo: non c'è mai stata vera ricerca, e ogni genere ha potuto essere tranquillamente attraversato. Le poche eccezioni - Conte, Branduardi, in parte Dalla- confermano la regola d'una mancanza di cultura musicale, di un dilettantismo che i più onesti - vedi De André - non hanno nemmeno voluto nascondere. Gaber, che è una persona seria e ha qualcosa da dire, ne ha tratto le debite conseguenze, e prima ha fatto del teatro anche con le canzoni, poi ha smesso di cantare. Certo, l'ambiguità è inscritta nel modulo-canzone, per definizione fatto di parole e musica: e anzi, da una trentina d'anni a questa parte, prima di parole e poi di musica, nel senso generico che il cantautore parte dalle cose da dire e solo in subordine trova la musica giusta; il suo interesse insomma è più che altro poetico. Già, ma che io sappia, né Leo Ferré né Georges Brassens vengono considerati musicisti dagli ascoltatori e dai critici francesi: sono chansonniers e stop. Da noi no. E la conseguenza è stata che il cantautore, per venire incontro a un pubblico che cercava musica e non canzoni, ha seguito le peggiori scempiaggini sonore, che poi al patito rock piacevano e lasciavano comunque indifferente il destinatario cantautorale "puro". Credo che nemmeno oggi il fan, poniamo, degli U2 o degli Eurythmics sbraghi più di tanto per una canzone di De Gregari. Ma le conseguenze sono gravissime rispetto alla forma complessiva del prodotto, alla sua efficacia comunicativa: pochi cantautori si sono seriamente chiesti, nella pratica, che cosa diventavano i loro testi non appena venivano deformati dall'intervento della musica; e così 90 facendo, procedendo per tentativi dilettantistici, hanno ottenuto gli effetti più involontariamente comici. Addirittura archetipo è il caso di De Gregari, il quale - sarà la voce soavissima, saranno gli arrangiamenti, saranno le scelte melodiche - riuscirebbe a farci sospirare e palpitare anche se cantasse l'elenco del telefono o una sequela di bestemmie. E, poveretto, sono ormai passati parecchi anni, una sua canzone sarcastica sull'Italia-ma il sarcasmo era solo del testo - venne usata come sigla per uno spazio elettorale del Movimento Sociale. Per quanto riguarda il costume c'è poco da dire, anche perché non sono sicuro di avere capito che cosa sia il "costume" (anche se poi le storie o le storielle della canzone solo di quella cosa ll, alla fin fine, parlano). Narrano comunque le leggende che intere generazioni di quindici-ventenni dei Settanta si siano emotivamente emancipati ascoltando, che so?, Paoli e Tenco, protomartire - quest'ultimo- della canzone italiana, perché bravo "musicista" e compagno, prima che suicida. Se lo dicono quelli che c'erano, posso anche crederci. Certo che, visto quello che è successo negli anni successivi, le stimolazioni istintuali più radicali le hanno propiziate non i noiosissimi Paoli e Tenco e compagnia bella, ma- se è permesso- i gruppi stranieri, i cantanti angloamericani, i cui comportamenti trasgressivi - anche e soprattutto in senso musicale- non sono stati neanche sfiorati dai signori di cui sopra. Fra l'erotismo di Jimy Hendrix o di Prince e quello - mi voglio sprecare - di Bennato o di De Gregari mi pare che ci sia qualche differenza. (Di verso il discorso per le voci femminili, da Mina a Patty Pravo a Gianna Nannini; ma, guarda un po'!, non si tratta propriamente di cantautrici). E veniamo dunque alla politica, vera nota dolente del cantau- · tore italiano, che per anni è stato letteralmente spremuto dal pubblico, e addirittura fisicamente minacciato, perché nelle sue canzoni si parlava troppo poco delle lotte. Acqua passata, certamente, anche se io credo che - intolleranza fisica a parte - un po' il pubblico avesse ragione. Tu accetti di apparire di sinistra, e però non lo fai capire con le tue canzoni: perché? Domanda ingenua, senza dubbio, e anche un po' stalinista, ma la risposta giusta non mi sembra sia stata quella dei cantautori che si sono appellati a un 'improbabile autonomia dell'arte ( e vedi ora la sterile ironia di Guccini in Cròniche, p. 132), riuscendo di fatto a eludere il problema. Ma nel frattempo gli è andata bene, anzi benissimo, perché oggi i cantautori sono quasi tutti considerati di sinistra, veri compagni, bandiere di una possibile alternativa. Mi sbaglierò, ma l'operazione dell' "Unità" sembra proprio rispondere a ima linea di politica culturale. Viene da piangere: a "Italia radio", se si parla di droga, ecco che dal Mixer si intervallano le parole del dibattito con la repellenteLilly di Venditti, e tutto De Gregari è quotidianamente di casa (un giorno, dato un buco un po' lungo, credo che sia andata in onda un'intera facciata d'un suo album). Francamente, mi fa un po' paura questa smisurata concessione di credito; ci vedo qualcosa di simile a un senso allegorico e figurale: allegoria e prefigurazione, voglio dire, di sconfitte, di botte prese, di arretramenti sociali. Non ci si rende conto che il referente storico primario del cantautore è solo la sua amatissima esistenza: che il suo linguaggio, frusto e mal calibrato anche nelle armoniche di senso che in teoria dovrebbe saper meglio padroneggiare, non fa veramente appello alla razionalità dell'ascoltatore né cerca sul serio éli scatenare l'altro, ma è solo superficialmente appagante, senza residui conoscitivi o emotivi, inevitabilmente consolatorio; e al livello più basso. Il cantautore non è mai in crisi, è sempre lì tutto d'un pezzo, anche quando si piange addosso, perché non c'è pianto nella sua canzone, come non c'è riso. Resta solo un mediocre impasto di mediocri sentimenti. Prego, ascoltare - e trasmettere - altro.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==