MUSICA mente diverso. Innanzi tutto, Guccini si è attrezzato con una lingua che letteraria e istituzionale in senso proprio non é. Le diciotto prose di memoria raccolte nel volume sono scritte in un italiano che l'autore stesso definisce "parlato", e che si compone di un impasto oltranzistico di voci in lingua trascritte nella loro pronuncia regionale, di dialettismi crudi e di cultismi letterari; il tutto coeso da una sintassi parlata, fitta di anacoluti e di periodi segmentati, ma anche in grado di parodiare i moduli della lingua doto ta. L'unità del libro è d'altra parte garantita proprio dall'opzione linguistica e geografica: l'autore racconta la propria infanzia vissuta nel paese di Pàvana, coprendo, ma senza alcuna continuità cronologica, gli anni Quaranta e i primi Cinquanta, con rare escursioni fino agli inizi del decennio successivo e oltre. Una lingua, quella di Pàvana, decisamente ancipite, duplice, come sottolinea lo stesso Guccini: a cavallo fra la Toscana (siamo in provincia di Pistoia) e l'Emilia, unisce esiti delle due aree dialettali, in un calderone che l'autore assapora nella sua materialità aggrovigliata e fascinosa (e che il lettore può cercare di sbrogliare avvalendosi del vocabolarietto posto in fondo al volume). Le memorie sono frammentarie e discontinue, il tono è divagante e si compiace di a:llineare le disgressioni più bizzarre che ben presto allontanano il tema narrativo inizialmente impostato. Ne viene fuori inevitabilmente, e in modo non sgradevole, un punto di vista "dal basso", inteso a svalutare tutto ciò che di distante, di ufficiale, di grande esiste nella realtà esterna a Pàvana. Fin dalle prime righe del libro, per esempio, veniamo informati che "Il Po ... si sa che nasce dal Monviso, per definizione, ma è più invenzione letteraria che geografica" (p.9), essendo il Limentra, e in subordine il Reno, i fiumi "per eccellenza, per antonomasia"; e non molte pagine dopo, nell'ambito di una vera e propria decostruzione prospettica della geografia ufficiale, leggiamo un fulmineo "Milano esiste. Ci abitava la Ziazìta con Zioromàno" (p.25). Il punto di vista basso permette una sintonia esclusiva con gli aspetti vitalistici dell'esistente, mentre perde- come è ovvio - la trama storica. Così fra tedeschi e americani che occupano successivamente la regione l'unica apprezzabile differenza è data dalla quantità di oggetti che vengono abbandonati; e la simpatia va giustamente ai secondi, perché i tedeschi "Non ne avevan mia tanta roba da lasciarsi indietro, loro, mia come gli americani, che facevan stradìo, dietro, di tutto" (p.142). Guccini insomma persegue una strategia del capriccio, della divagazione protratta e divertita, e anzi si ha l'impressione che certi effetti di parlato siano qualche volta procurati dall'esterno, in modo sin troppo arbitrario; come per esempio in occasione delle ricapitolazioni in chiusura d'una digressione, quando la voce narrante si ricollega al tema della narrazione: "Questo comunque c'entra come il culo con le quarant' ore, perché dicevo degli americani ..." (p. 144). Ma lo spasso del lettore di fronte a queste frequenti prese di posizione metadiegetiche è controbilanciato da un'alchimia linguistica non sempre facile da decifrare. La macchina stilistica gucciniana prevede: sia la deformazione dialettale e/o infantile di voci italiane (ad esempio cammino per camion, oppure pessci, leggno, ecc.), sia il richiamo all'esatta pronuncia di parole spesso storpiate nell'oralità (guaìne, tocchi, sprègio, ecc.); e per certe particolarità fonetiche vengono persino adottati segni diacritici. Professoralità del Guccini, dunque, che finisce paradossalmente per rovesciare molte delle connotazioni della sua lingua: l'evocazione del codice orale diventa il trionfo dell'artificio scritto e dietro la bonaria asistematicità di un narrare divertito si profila lo spettro del glottologo, il quale sa magistralmente trascorrere, quando parla e scrive, dalla mimesi della lingua popolare alla puntuale riaffermazione dello standard. Cosa c'è di male in tutto questo, ci si può chiedere, se da Folengo a un certo Pascoli, arrivando magari a Meneghello, l 'incontro del dialetto e dell'oralità con la lingua colta ha prodotto non pochi capolavori della letteratura italiana? A parte il fatto che questi ultimi autori le lezioni di lingua di solito le fanno, se le fanno, in nota; e Guccini invece te le spiattella anche nel bel mezzo del testo; a parte ciò, dunque, quello che mi sembra più sintomatico è la tendenza, implicita in tutte le Cr6nicheepafàniche, a liquidare il mondo rurale nel momento stesso in cui viene evocato. Esattamente all'opposto di quanto scrive Benni in quarta di copertina (" ... un popolo a:llegro e ribelle, un'isola favolosa in pochi metri d'acqua, che forsè esistono ancora appena fuori delle nostre città"), quell'universo è finito, defunto, definitivamente scomparso, s'è ridotto a un mondo di morti del quale, alla fine del libro, si celebra cupamente il h.Jtto(" ... tutto quel mondo che non c'è più, e che non si ritroverà" - p. 166). E éiò avviene non solo perché - e chi non lo sa? - la vita contadina è stata stritolata dalla modernità; ma più profondamente perché nel libro di Guccini non c'è mai stata una società, bensì l'esperienza personalissima dell' autore che una volta cresciuto riesce a vedere solo siienzio e distruzione. Non a caso una delle poche immagini "contemporanee" che l'autore tratteggia di sé (cfr. 140) lo presenta intento a raccogliere documenti, lettere e fotografie del passato: delle civiltà sepolte, si sa, è possibile solo un'archeologia o, se delcaso, una glottologia. Al mondo moderno, e direi anche al lettore che in quel mondo vive, non si può che rivolgere un sorriso di compatimento un po' contegnoso: il "pòro pist6llo", i "pòri sciamanni" (pp. 157 e 166) continueranno la loro vita orfani di tanta esperienza, ma forse saranno anche ammaestrati da quell'arcaica saggezza. Il cerchio a questo punto si chiude. Guccini resta fedele a se stesso. Del resto, molti motivi e molti personaggi delle Cròniche erano già comparsi in canzoni degli anni passati (a partire da Zio" merìgo, ovvero l'Amerigo del disco eponimo): e non voglio togliere ai gucciniani il piacere di ricercarseli nel volume. Ma è proprio l'immagine generale dell'autore, l'autore implicito, a essere molto simile, anche se non del tutto sovrapponibile. Personalmente, preferirei altri libri come questo piuttosto che un solo disco in lingua; ma sono appunto opinioni private. Poco male, ognuno fa quello che sa fare, e Guccini dopo tutto è un onesto predicatore di verità ultime, magari un po' provinciali e ottocentesche, che non danneggiano nessuno. • • • Eppure, quello che succede oggi nella nostra società letteraria e musicale (ma non solo), è esattamente l'opposto. A Guccini e ai cantautori in generale si concede un credito illimitato. Una prima conferma ci viene da un dato apparentemente esterno, ma in realtà centralissimo. Nell'ultima classifica di "Tuttolibri" da . me consultata in tempo utile (4 novembre 1989) Crònicheepafaniche è in testa alla graduatoria della narrativa italiana, e Feltrinelli ci fa nel frattempo sapere che siamo giunti alla seconda edizione del volume in meno d'un mese, con quarantamila copie tirate. E me lì vedo i fans del cantautore piombare numerosi in libreria a comprarsi le Cròniche a scatola chiusa. Peccato però che nessuna classifica ci dica quanti libri vengono effettivamente letti, perché, viste le caratteristiche formali dell'opera, temo che pochissimi fra i tifosi del cantante arriveranno in fondo alla lettura. Vediamo un secondo dato: giovedì 26 ottobre è uscita come supplemento dell' "Unità" una cassetta, accompagnata da un fascicoletto illustrativo, dedicata ai cantautori italiani ( i nomi sono per ora quelli di Paoli, Da:lla,Gaber, Jannacci e De André); l'operazione ci viene presentata all'insegna della "buona musica" e del "sogno di un'esistenza più autentica, di amori più veri e più libe89
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