Linea d'ombra - anno VII - n. 44 - dicembre 1989

TEATRO AUTOBIOGRAFIA DI UNA VOCE ' "COME E" ESAMINATOCOME TESTOTEATRALE Franco Quadri Era uscita da poco la mia traduzione di CommenJe' est, quando venni incidentalmente a sapere che, mi sembra a Venezia, qualcuno l'aveva messa in scena. Come si conviene a una materia beckettiana, non ebbi mai informazioni ulteriori, né sul chi, né sul come. Ma mi trovai rinsaldato in una convinzione che già sentivo inconscia, dai giorni in cui mi leggevo ad alta voce il romanzo, prima in francese, poi via via in italiano. La convinzione che CommenJe' est fosse già teatro, come tutto Beckett, per via di quella voce che dal principio non smette di parlare e interrompe il suo eloquio solo per pause programmate, non finalizzate a creare un'atmosfera, bensì corrispondenti a scansioni naturali per dare spazio al respiro. Naturale appariva di per sé il flusso del torrenziale monologo interiore, anzi naturalmente teatralizzato, per l'amministrazione calcolata dei vocaboli, l'inseguirsi alternato degli ansimi, i discorsi lasciati a mezz'aria ripresi più in là, quasi questa voce che non si sa se attribuire a una bocca e quale, questa voce che si confonde con l'esistere, e che vi dà adito rappresentandosi, lei stessa protagonista corporea o incorporea, non dovesse appartenere in realtà a un gran gigione abilissimo nel calibrare gli èffetti, nel ritmare il suò dire coi condizionamenti di una ipotetica fisicità toccata dallà malattia, nell'equilibrare l'angoscia con l'ironia, l'imprecazione col rimpianto, sul filo uniforme della ripetizione coatta. Da allora non ho mai abbandonato l'idea di un CommenJe' est teatrale, anche se mai, prima degli anni Ottanta; ho assunto una vera iniziativa per realizzarlo. Il progetto restava catalogato nella lista delle potenzialità in attesa d'occasione. Intanto mi limitavo a sostenere l'unicità espressiva di tutta l'opera di Beckett, a dispetto delle molteplicità di destinazione. Mi battevo anche per la superiorità della sua narrativa sui testi drammaturgici, che confinavo a un livello di divulgazione e di consumo, almeno per quanto attiene alle pièce più consacrate e classiche (ivi incluso anche il mirabile teorema di Fin de partie), come l'autore ha sempre ammesso, anzi rivendicato, fintanto che scriveva pure romanzi; e CommenJe' est, che chiude la serie dei testi lunghi in prosa, in quel periodo entrava di diritto. Ma si dà il caso che dopo, chiusa con Happy Days nel '61 anche la serie delle commedie maggiori, Beckett non abbia quasi più scritto che teatro - e questo con gran fatica, parsimoniosamente, centellinando le par9le - come se il teatro fosse diventato il suo mezzo d'espressione, oltre a costituire l'universo che assorbiva pressoché per intero il suo tempo, con le traduzioni, le regie, le supervisioni degli spettacoli, lo stillicidio delle prove, le realizzazioni televisive; e che questo teatro, composto ormai da brevi frammenti vicini all'afasia, ellittici, senza un principio né una fine, ignorasse del tutto le convenzioni del genere, a cominciare dal dialogo, da una conflittualità drammatica, dal plot, da un qualsiasi senso di temporalità, per essere di fatto letteratura e basta. Nulla li distingue, questi pezzi, quanto alla forma, dai grandi romanzi del primo periodo, daMurphy (e Watt) alla "trilogia", elaborati quando, al contrario, il teatro risultava per lui ancora assente. Bisognerebbe dire a questo punto che Comment e' est è romanzo e basta, proprio per essere stato invece scritto nella fase in cui i due modi di espressione coesistono nella pratica dello scrittore. In effetti questi è il primo e il più implacabile nel difendere la specificità da lui prescelta, nel negare qualsiasi diritto di utilizzazione non prevista. E lo vuole anèhe la struttura di quest'opera (considerata da qualcuno un poema e da altri un saggio filosofico), che postula per gli approfondimenti e il tipo di sviluppi e d'implicazioni di essere consumata sulla pagina, oltre a inseguire nella triplicità delle sue parti un procedimento hegeliano o un rigoroso schema dantesco: una riprova verrebbe dalle citazioni spesso ironiche attinte alla Divina commedia, non fermandosi qui alla presenza di Belacqua, canonica per Beckett. Ma la forma? a parte quanto già ne ho detto, chi può negarne l' assirnilabilità aquella del suo teatro, segnatamente dell'ultimo? L'occasione attesa me l'avrebbe fornitanell '82 un amico attore in fase di apprendistato, con predilezione formativa per la poesia e per il monologo, che giornalmente mi proponeva materiali registrati da correggere o su cui intervenire. Una sera mi arrivò di sorpresa col nastro di un brano di CommenJe' est, senza immaginare che mi chiedeva di superare, e confessarmi, una rimozione, di sottrarre un testo alla catalogazione tra gl •intoccabili, avvenuta nonostante quella famosa - e teorica - intenzione. La lettura era naturalistica, e dissentii; la sera dopo, la lettura era invece tutta giocata sugli eccessi e sul gusto delle sonorità, e dissentii di nuovo. La molla però era innestata e avrebbe portato alla formulazione di due progetti. Ma ci si arrivò giustamente coi tempi e la casualità di Beckett, mentre, provando e riprovando, la lettura diventava sempre più neutra, atonale, asciugàta di ogni interpretazione, un vibrare impercettibile di onde musicali, un moto perpetuo impossibile da arrestare, nella meccanicità calcolata di quel mucchietto di secondi fissato per ogni pezzo, più il conto fino a tre per le scansioni. La condanna alla verbaiità voleva del resto corrispondere al mistero della soggettività della voce. Del racconto era stato assunto un aspetto a caso, una parte per il tutto, dall'inizio che m'ero trovato scelto fino alla pagina 28, ovvero la durata di venti minuti, senza aspirare a una completezza, fermandoci dove il tempo voleva, tralasciando i tagli che mi sarebbero sembrati improbabili, per fissare un frammento, nella linea dell'ultimo Beckett, esprimere uno stato, piuttosto che una sistematicità. Del resto il video che volevo realizzare con Roberto Trifirò (era il nome dell'attore) si sarebbe dovuto chiamareBeckett, non Come è. Alla base c'era un'idea che da tempo avrei voluto verificare sul teatro di Beckett, e di conseguenza anche su un suo romanzo. Toglierne cioè la sua determinante invenzione scenografica, tutto quello che l'autoi:e aveva messo dietro alla tendenza centrifuga alla dispersione delle frasi, dietro a una segmentazione del discorso già ereditata da altre esperienze; toglierne allora l'azzeramento ambientale e il deserto di sfondo per tornare a Cechov, riportando il luogo dell'azione nella vita di tutti i giorni. Quel tormento nel fango, quello strisciare nel buio, quella convivenza forzata con un sacco e pochissimi oggetti, alcuni bizzarri, con un corpo, o più esattamente la natica di una vittima apparsa improvvisamente e da torturare, quella manipolazione continua da parte di chissà che sconosciuti, nell'eco di una voce con cui cercare un'immedesimazione, non dovevano essere letti che come termini di quotidianità, di una realtà nostra, tra altri uomini, magari estranei, una solitudine coatta a consuetudini bestiali, ma all'ombra dei grattacieli. Per il video vedevo al principio un'immagine astratta, uno zoom nel bianco asettico di uno studio, una lunga carrellata della "camera" avanzante verso l'unico attore, nei modi previsti da Beckett in didascalia per le riprese di Dis Joe, per scoprire, arrivando su di lui e girandogli intorno, rovesciate le prospettive, · il manifestarsi davanti al soggetto-oggetto della concretezza cittadina in cui risultava immerso. Mentre studiavamo il copione, mi capitò di assistere al Kammerspiele di Monaco a uno spettacolo tra i più belli e inquietanti di Bob Wilson, Die Goldenen Fenster. Se nella realizzazione mi colpì il demandare il malessere di una coppia anziana (e del suo giovane doppio) a elementi di disordine minimalista inseriti in una perfezione formale assoluta, non restavo indifferente all'accresciuto peso del testo parlato, tanto da volerci tornar sopra: e riscontrai che l'abituale gioco delle ripetizioni e dei nonsense acquistava una ritmicità e una scala di riferimenti a situazioni esistenziali, da rendere ammissibile una relazione di Wilson con il mondo e la scrittura di Beckett. Siccome Bob studiava un utopico progetto di 79

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