Linea d'ombra - anno VII - n. 44 - dicembre 1989

ILCONTESTO Invito al PCI perché, saggiamente, si sciolga Luigi Manconi In Italia, l' 11,7% della popolazione tra i 18 e i 74 anni svolge un'attività di volontariato: 4 milioni 547 mila persone che investono parte del proprio tempo in azioni non retribuite e "socialmente utili". Di questi volontari, oltre un milione presta la sua opera in organizzazioni partitiche e sindacali; gli altri 3 milioni 524 mila - il 77% - si dedicano ad attività civiche e socioassistenziali. (Questi dati, elaborati dall'Iref, sulla base di una ricerca dell 'Eurisko (1) sono riferiti ali' anno 1985. Nel frattempo, il fenomeno - a parere di tutti i ricercatori - si è sviluppato ulteriormente e in misura rilevante.) Questi sono i campi di intervento: educazione, ecologia, formazione alla pace,.protezione civile e soccorso, sostegno ad anziani, ammalati, handicappati, alcolisti, tossicodipendenti, vecchi e nuovi poveri ... Prendiamo ora in considerazione un altro dato: quello relativo agli iscritti alla maggiore associazione politica italiana, il Pci. Gli iscritti al partito comunista - nello stesso anno 1985, a cui si riferiscono i dati relativi all'attività di volontariato - sono 1 milione 595 mila. Ebbene, se si affiancano i dati che riguardano il volontariato e quelli che riguardano il Pci, viene abbastanza spontaneo (a me viene addirittura spontaneissimo) chiedersi: ma perché il Pci non si scioglie, ovvero non scioglie il suo apparato? e perché non dedica le energie così "liberate" (sedi, militanti, budget-tempo, risorse politiche, matériali e finanziarie) ali' azione di solidarietà sociaie? Perché non destina a questa attività - di sostegno e di organizzazione, di mobilitazione e, anche, di assistenza - la quota principale del proprio patrimonio di intelligenza e forza, di esperienza e passione? Molte sono, io credo, le ragioni a favore di una tale ipotesi. La prima è elementare: le vecchie e le nuove povertà non sono destinate a ridursi, bensì - irresistibilmente - a crescere. Certo, si può e si deve lottare perché sia lo Stato, la spesa pubblica, le istituzioni del welfare a ridurre.le povertà, a sostenere i soggetti deboli, a offrire reti di solidarietà e assistenza agli emarginati. Ma è altrettanto certo che unò Stato - anche straordinariamente più sollecito ed efficiente di quello italiano - non è in grado di assolvere tale compito: e non sarebbe in grado, in ogni caso, di "personalizzare" i servizi prestati, di dar loro quel connotato di "sensibilità" e di "affettività" richiesto. E allora? perché non può essere un'associazione privata - forse la maggiore associazione privata italiana- a farlo? Anticipo subito una possibile eccezione: quella che sottolinea il rischio di trasformarsi in un ente filantropico. Chi enfatizza tale rischio sembra dimenticare che alle origini del movimento operaio - e per una lunga fase - organizzazione sindacale e mutuo soccorso, assistenza e lotta, solidarietà primaria e tutela di gruppo erano attività intrecciate e reciprocamente integrate, fino a coincidere nei medesimi soggetti e nelle medesime organizzazioni. Ma la considerazione più importante è un'altra: oggi, come alle origini del movimento operaio, l'attività di solidarietà tende a perdere il suo connotato assistenzialistico, a vantaggi9 di quello 6 mobilitativo e, se necessario, conflittuale. Questo riguarda, in vario modo, settori significativi dell'area del volontariato: in essi l'attività di assistenza e di organizzazione "al servizio dei deboli'' tende a confluire verso uno spazio di competizione per il controllo e la distribuzione di risorse. Tali risorse possono consistere in servizi, in beni o in quella forma di beni che sono i sussidi e le previdenze. Per concorrere alla disponibilità di quelle risorse, l'azione di volontariato non si sottrae alle vertenze e ai conflitti. Vertenze e conflitti concentrati, prevalentemente, sul sistema politicoamministrativo (decisioni relative a competenze di spesa attribuite a ministeri, asses,sorati regionali, provinciali e comunali, enti pubblici in genere). Il passaggio dell'azione volontaria dalla dimensione "di servizio" aquellocompetitivo-conflittualerisulta una chance latente - una carta di riserva- disponibile e utilizzabile a seconda delle circostanze e delle opportunità. Tale chance è affidata, in genere, all'attivazione di quanti provengono da precedenti militanze in organizzazioni politiche o sociali (della stessa area cui appartengono i gruppi di volontariato interessati o, non infrequentemente, di area diversa). Raramente le risorse accumulate e le competenze acquisite nelle passate esperienze rimangono inutilizzate: più spesso, esse vengono "riconvertite", almeno in parte, e indirizzate verso le nuove mete perseguite. In generale, sembra potersi dire che- seppure non si disponga di ricerche che lo confermino- si riduce il numero dei gruppi e delle associazioni che non prevedono, sia pure virtualmente, il passaggio a quella dimensione competitivo-conflittuale. Questo significa, a mio avviso, che un ampio investimento di energie e individui, di tempo e di risorse nell'area del volontariato non comporta un mutamento di fisionomia del Pci in senso filantropico-missionario. Al contrario: potrebbe comportare una diversa qualificazione del Pci e una sua più stretta aderenza ai movimenti e ai sentimenti reali (bisogni, sofferenze, aspettative, strategie di adattamento e/o rivendicazione) della società reale; potrebbe comportare, addirittura, una più accentuata connotazione conflittuale del Pci (2). Non c'è dubbio, infatti, che oggi/a più conflitto la Caritas di un consiglio circoscrizionale; e c'è più lotta di classe nell'attività di sostegno ai tossicodipendenti che nei distretti scolastici. Rispetto a questi "conflitti" e a questa "lotta di classe" il Pci risulta assente o ai margini.L'enorme budget di energie e risorse, di tempo e di competenze di cui dispone è, in larga parte, investito nell'attività di autoriproduzione: di perpetuazione di se stesso, della propria organizzazione e burocrazia, dei propri apparati e dei propri ruoli. È questa, d'altri} parte, la radice prima della sua natura profondamente conservatrice (e della natura profondamente conservatrice della forma-partito, in genere). Questa parte del mio ragionamento, scritta prima che la Direzione del 13-14 novembre 1989 e il Comitato centrale della settimana sucessiva discutessero del progetto di "costituente della sinistra" (e della cancellazione del termine comunista dal nome del partito), riceve - credo - notevoli conferme da quelle

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