Linea d'ombra - anno VII - n. 44 - dicembre 1989

leità di un "nichilismo distruttivo" (il dadaismo, i furori di Artaud ...). Mirùstro della cultura surrealista, Breton ha guidato responsabilmente la "nave della libertà" attraverso un oceano impuro. Il viaggio si svolse all'insegna del più nobile idealismo. Certo, quella nave (il castello del primo Manifeste du Surréalisme) fu sicuramente la più frequentabile e la meno indecente delle navi nel periodo tra le due guerre, e il laboratorio centrale di grandi esperienze intellettuali, collettive e individuali, contraddittorie, divergenti, "recuperabili" e ostinatamente ribelli. Ma la coscienza del superamento, che al surrealismo non mancò, non sfuggì alla trappola della coscienza separata. Oggi come allora, la questione è aperta. Allora, Breton non ne fu consapevole, pur sospettando già nel 19521 'integrazione del surrealismo, senza più timori, nello spettacolo della società dei consumi. Il surrealismo sarebbe diventato (è diventato) una consolazione alla portata di tutte le anime, di tutte le borse, di tutti gli spot. ghidi consumopiù diversi, dalla "comurùcazione"pubblicitaria all'editoria, all'Università, ne sta producendo un'usura irreparabile. Mentreil surrealismo "per tutti" partecipa dellemiseriedella cultura mercificata, diventa finalmentepossibile stabilire un rapporto "a distanza",storico,con i suoi singoli autori, restituitiallaloroidentità. Nel caso diBreton, significadecidersiadaffrontare il poeta, per poianalizzarecon rigore storiografico una delle sue creazioni;la teorizzazione e l'organizzazione delsurrealismo. La lettura degli Entretiens del 1952 fornisce tracce importanti, soprattutto sullasuaformazione tardosimbolista e modernista. È una "chiave di accesso" di grande importanza,per capire le regioni della continuità del surrealismo con la tradizione culturale francese. In questa prospettiva di restituzione ai surrealistidi ciò che appartiene ad ognuno di loro,l'edizionedelle opere complete di Breton, cheMargueriteBonnetsta curando per laPléiade(ilprimovolume, pubblicato nel 1988, giunge al 1930), costituisce un fondamentale strumentodi lavoro. Eppure, oggi, proprio l'assunzione dei luoghi comuni della mitologia surrealista nei luo- Breton in una foto del 1930 circa. Questo intervento è un po' tardivo, dato che si riferisce ali' articola di Barenghi apparso sul numero invernale della rivista. Tardivo, ma spero non del tutto inutile. NellasostanzaBarenghi ha ragione: non c'è motivo oggi per leggere poesie, se non un vago e intermittente amore per la pronuncia forte e marcata, per la parola secca e resistente. Leggere poesia è come andare alla ricerca di un Dio teologicamente incontaminato, depurato dalle incrostazioni materiali, un Dio che fluttua nello spazio libero e virginale della coscienza. Questo è ciò che normalmente si chiede alla poesia: una piccola entratura nel sublime, un accesso provvisorio all'assoluto. Quando si legge una poesia (a me almeno capita così) ci si aspetta una sensazione intensa, non necessariamente duratura, ma profonda, tagliente, una sensazione che sposti e rimescoli un pochino le strutture del concepibile (to' guarda, si pensa, aprile non è soltanto un mese torpido, è anche un mese "crudele" e per un attimo viene la pelle d'oca). Ma qui sta il punto. Com'è possibile "leggere" ancora in questo modo? Dov'è finito lo spazio mentale in cui può scoccare la parola potente e facinorosa? Dov'è quel silenzio dilatato, prensile che amplifica i suoni facendoli diventare ossessione leggera, lungo riverbero? Dice Barenghi: "ci vorrebbe LETTERE Ancorasulla poesia PaoloLanaro una sospensione dell'ingorgo linguistico che caratterizza la nostra esperienza". Bisognerebbe essere meno sordi, meno ottusi, più attenti, più selettivi. Già, ma come si fa? La nostra cultura è ormai un missaggio di canzonette, di titoli di giornale, di ricordi di università, di conversazioni monche, di letture "veloci", di spunti casuali, di citaziorù approssimative. In questo disordine totale la traccia lasciata dalla poesia è come l'effimero disegno di Ulisse sulle sabbie dell'isola di Calipso. Eppure io credo che non sia una situazione del tutto nuova. Forse gli ultimi ad aver avuto una nozione meno confusa della poesia (ma non ne sono troppo sicuro) sono stati i Greci, che erano ancora capaci, di fronte alle gravi parole di un Sofocle, di rapimenti collettivi. Forse, a quei tempi, un commerciante di formaggi sapeva ancora distinguere un trocaico da uno spondeo (oggi no, di certo). Però poi le cose sono cambiate. I linguaggi, le forme espressive si sono moltiplicate; l'oralità, sorella della poesia, si è dispersainuna miriade di discorsi specializzati ed è diventato semprepiùdifficile scrivere, formalizzare,raffreddare sulla cartaun tumultosempre più caotico di impressioni,di ragionamenti, di sensazioni. Oggi sembradi avertoccatoil limite. Il mondo è unpaurosoammasso di "frante immagini"acui i poeti prestano il loroocchioavolte umidiccio, a volte coraggiosamente asciutto.Ma giàHolderlin era convinto che il mondofosse senza stile e dunque lui scriveva come i Greci per ottenerequella compattezza dicontenutieditempi che altrimentirischiavadisfuggirgli. Leopardi,dal cantosuo,lamentava la proliferazionenefasta dei poeti e il triste commerciodi versi insulsieoccasionali. Le avanguardie poi si sonopreoccupatedi denunciare periodicamenteil disastro; in generei programmierano abbastanza buoni, i risultati sconfortanti. Oggi, ripeto, sembra di aver toccato il limite;non si vedepossibilità alcunatralostrepitoassordante e un silenzioazzerante,perfotto. Eppure, contro ogni costatazione, la poesia esiste. Certo esiste ormai in forme diverse, biologicamente impreviste, se non addirit- , tura in forme presunte, virtuali. Quella che manca, credo, è la mediazione tra questi linguaggi di fuga e il tono generale della comurùcazione. Nelnostropaese(nonsocome sia negli altri) sono saltate le dialettiche tra autore, critica e pubblico, col risultato che l'autore è sempre più incollato alle proprie dismisure, la critica oscilla tra l'arroganza accademica e la promozione omertosa e il pubblico, modestamente, se ne infischia. La colpa, diciamo la verità, a parte le solite notazioni sull'epoca inautentica, sui velerù della società di massa, sulla sofisticazione . del gusto, è un po' anche dei poeti che accettano malvolentieri la loro marginalità storica, che non sopportano di svolgere una fun- · zione (semplicemente?) comunicativa, sia pur stilisticamente trasversale. A questi poeti è giusto ricordare quanto scriveva Primo Levi: "Se hai la fortuna di trovare accanto a te qualcuno con cui hai una lingua comune, buon per te, potrai scambiare le tue impressioni, consigliarti con lui, sfogarti; se non trovi nessuno, la lingua ti si secca in pochi giorrù, e con la lingua il pensiero". Levi si riferiva al Lager, ma il discorso vale in generale. Qui si infila anche il problema della critica. In linea di massima la critica è un comparto del sistema 27

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