Linea d'ombra - anno VII - n. 44 - dicembre 1989

Il centrodella crisi? la recitadi ChristaWolf Chiara Allegra Nei confronti di Christa Wolf credo di avere un grosso vantaggio: il primo dei suoi libri che ho letto è Cassandra, e mi è parso un capolavoro. A partire da Cassandra ho cominciato l 'esplorazione del territorio circostante, ma mi è sempre sembrato (salvo ripensamenti) che quella fosse una vetta e che attorno si andasse in discesa. Probabilmente anche Guasto, il libro del 1987, precedente a questo, ha trovato i suoi estimatori. Ame pare chela Wolfsi avventuri sempre più sul terreno della non,narrazione, della non-storia, a favore di un monologo allusivo, franto, di forte pregnanza simbolica, ma nel complesso (volutamente) grezzo e, direi anche, non sempre risolto letterariamente. Come dice lei stessa: "Dettagli, dettagli. Ma in quale altro modo, se non con l'ausilio di questi dettagli, potremmo testimoniare che quello a cui aneliamo si trova dentro di noi nella forma della possibilità?" (Recita estiva, p. 138). Questo però non sposta, ma ribadisce il problema. In Recita estiva (ed. e/o, traduzione e postfazione di Anita Raja, pp. 207 , L. 22.000, 1989) queste caratteristiche di stile si ripresen- · tano, benché con minore nettezza e soprattutto con una più forte giustificazione interna, dipendente dal tema e dal taglio narrativo. La scrittrice ha corredato l'opera.di un'avvertenza usuale: benché in un contesto autobiografico, personaggi e vicenda sono immaginari. Più facile o più efficace del solito riesce però il gioco al riconoscimento: come spiega Anita Rajanell 'ottima postfazione, le vicende narrate (continuo per chiarezza a usare il verbo convenzionale, anche se, come s'è detto, poco calzante) distillano in un'estate lo spazio di due anni, dal 1975 al 1977. Un gruppo di intellettuali della Rdt (il gioco al riconoscimento è ulteriormente facilitato dalle testimonianze dirette lasciate da altri protagonisti, tracuiMaxie WandereSarahKirsch)si ritrova in un volontario esilio campestre in un paesino del Meclemburgo. Nella quiete senza tempo, nella bellezza scontrosa del paese, che gli abitanti chiamano allusivamente "il gatto", essi tentano la riconciliazione spirituale con la natura, rifuggendo dalla cultura, cittadina e nevrotizzante; con la casa archetipica, quella contadina, costruita pezzo per pezzo e generazione dopo generazione; con le cose, perché "in campagna, la soda oggettività ha anche un altro significato, da essa fa capolino una realtà simbolica, metaforica, che nelle città non notiamo più" (p.92); con gli altri e soprattutto con se stessi. Si tratta di un gruppo di persone travolte da una crisi storica che non risparmia neanche la generazione dei bambini, pieni di ansie e di carenze affettive, bisognosi di oggetti magici per placarle. I giovani dal canto loro non sanno assumere una prospettiva abbastanza distanziata e critica rispetto alle scelte lavorative e amorose da decidere per che cosa valga veramente la pena vivere (salvo forse Anton, l"'hippy" di CONFRONTI Chrisla Wolf (foto Virago). buon senso). La crisi della generazione più anziana - quella della narratrice-è più sottile e sfumata. In primo luogo ha carattere storico-politico. L'esilio nella casa del Meclemburgo è infatti la conseguenza, sul piano autobiografico, di una grave delusione legata alla vicenda del cantautore Wolf Biermann, espulso nel 1976 dalla Rdt: laWolf e il marito, insieme amolti intellettuali, si schierarono a suo favore, subendo per questo pesanti sanzioni politiche. È immaginabile che cosa ciò possa aver significato per la Wolf, che ha sempre affermato la sua convinzione e il suo impegno politico per il proprio paese, tanto da non saper immaginare -comehadichiaratoleistessa-dipotervivere altrove che nella Rdt. A questa crisi nel testo ci sono allusioni nemmeno tanto velate: "Ma a un certo punto, non molto tempo prima, le era diventato chiaro che non poteva più tollerare nessuna sopraffazione o ingiuria, gli ometti prepotenti avevano assunto dimensioni storiche, doveva opporsi e proibire loro di parlare, basta. Basta con la condiscendenza. Basta con la sottomissione" (p.69). "Solo adesso anche noi sperimentavamo qualcosa di simile alla perdita della patria" (p.66). Ma la crisi politica resta nel complesso in secondo piano. Non è mai chiaro, e non vuole esserlo, in che rapporto essa stia con la più profonda crisi esistenziale e artistica. La narratrice scopre con lucidità da molti indizi, che si preferirebbero tener celati a sé e agli altri, di non saper più suonare la propria tromba, che 1'.età (quella individuale, non tanto quella stonca) l'ha piegata a non sdegnarsi e a non combattere più abbastanza, l'ha costretta a capitolare: dentro di lei gli ometti prepotenti hanno vinto. Restano i suoni più dolci e intimi, la tenerezza, gli affetti, lo struggimento per la bellezza. E non è un caso allora che la narrazione proceda sotto il segno della fine, della distruzione provocata da quell'incendio continuamente evocato che divora in un attimo la casa, così pazientemente intessuta di vite e di ricordi, e disperde tutto il gruppo. Lo struggimento quasi fisico, doloroso, l 'intensitàdell' attenzione di Christa Wolf per le cose e per i gesti restano la caratteristica più affascinante della sua prosa. In Recita estiva essa è accresciuta dalla prospettiva del ricordo, dal1'intimo colloquio con le ombre delle persone e delle cose che non ci sono più. Semmai il limite dell'operazione sta - lo ripeto - nell'eccessiva allusività della notazione, nell'esemplarità icastica delle affermazioni, spesso brevi, brevissime, ellittiche, lapidarie; in uno sviluppo tutto verticale dell 'introspezioneche va a scapito della dimensione oriz-. zontale del racconto. È certo che la scrittrice non perde mai i fili del discorso, sa riaffiorare dopo lunghe immersioni nell'interiorità dei personaggi. Sta al lettore trattenere il fiato insieme a lei abbastanza a lungo. La narrazione assume l'andamento di un lungo monologo, spesso sbocconcellato, nel quale anche le parole degli altri risuonano ali' interno della coscienza della narratrice, e si fa sempre più labile il confine tra io e tu, tra passato e presente. Anche le citazioni poetiche rafforzano questa sensazione che tutto sia già stato vissuto, così che da un la~ola prosa tende in più punti al lirismo, alla parola assoluta ed evocativa; dall'altro la felicità appare come rivivere, ripetere, ritornare, strappare all'oblio gli attimi di bellezza e di serenità vissuti: la felicità è nel passato, nell'istante vissuto a fondo - in una sorta di anti-S treben faustiano - non nel presente né nel futuro. In questa prospettiva, il susseguirsi delle domande del primo capitolo deve necessariamente restare senza risposta: stiamo andando verso la distruzione, noi che abbiamo creduto nell'utopia socialista, ma anche l'intera umani-· tà? "Vale la pena scrivere della Bellezza?" (p. 12).Ci sarà salvezza per valori come il bello e la semplicità? Così, a dispetto della scarsa originalità dell'idea, i personaggi mettono in scena se stessi nella "recita estiva", mettono in scena la loro ricerca di un autore che ne interpreti i dubbi, le nevrosi, le paure, dissolvono incongruenze e ambiguità personali nella univoca semplicità del ruolo di commedia. Forse è qui che lo struggente lirismo dei dettagli e il lucido pessimismo della Wolf mi danno l'impressione di non "quagliare" più con l'impostazione dei suoi ultimi testi: fare di se stessa, della propria interiorità autobiografica, il centro della crisi, delle profezie o dei resoconti su un mondo che si distrugge, è troppo poco, è inadeguato e disorientante rispetto alla di~ mensione universale, assoluta, commovente dei suoi precedenti modelli. Cassandra - non lo dico solo per un' estetizzante desiderio di chiudere il cerchio del discorso - era la grande interprete di una tragedia universale ed eterna; questi ultimi personaggi organizzano una "recita estiva" per "testimoniare" quello che si trova dentro di loro "nella forma della possibilità". La differenza è tutta qui, ma non è da poco. 23

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