Flaianoin Africa. Ildelitto del soldato Mario Barenghi ,,. Dopo anni di riconoscimenti sporadici e sospesi, di stima endemica, di fortuna limbale e interlocutoria, è venuto anche per Flaiano il tempo di una valutazione critica finalmente attenta emeditata, e conforme ai suoi meriti. L' espressione più qualificata di questo tardivo ma verosimilmente non effimero interesse è rappresentata senza dubbio dal volume Opere. Scritti postumi (Bompiani 1988), curato da Maria Corti; ma ulteriori proposte editoriali hanno preso corpo negli ultimi mesi. Sulla prima, Progetto Proust (a cura di Maria Sepa, Bompiani, pp. 295, L. 24.000), la sceneggiatura tratta dalla Recherche e mai tradotta in film, converrà soffermarsi in una,prossima occasione. Parliamo invece subito del primo e unico romanzo dello scrittore pescarese, Tempo di uccidere, datato 1947 e ora ripubblicato da Rizzoli (pp. 278, L. 20.000) con una postfazione di Sergio Pautasso. La storia è ambientata durante la guerra d'Africa. Un ufficiale italiano, tormentato da un dente guasto, lascia il battaglione per farsi curare in città; strada facendo si smarrisce, e nel suo girovagare s'imbatte in una solitaria giovane indigena che accetta, dopo qualche riluttanza, di far l'amore con lui. La notte appresso, per sbaglio, egli la ferisce con un colpo di pistola. La ragazza appare grave: lui non sa come soccorrerla, né, forse, lo vuole; di sicuro per farlo non è disposto a rischiare o sacrificare alcunché: così la uccide. Più tardi viene colto dal terribile sospetto che la giovane fosse lebbrosa e che possa quindi averlo contagiato. Il dubbio si tramuta man mano in certezza e l'ufficiale, sconvolto, vaga per l'Abissinia occupata dandosi ormai per bandito e disertore. Ma le sue paure si rivelano infondate. Non solo non è malato, ma nessuno lo ha accusato per il delitto; un superiore, che egli aveva derubato poco dopo, ha rinunciato a denunciare il furto; perfino la sua assenza dal reparto è passata tranquillamente sotto silenzio. Insomma, è come se non fosse successo nulla; e forse non è successo nulla davvero. Può darsi che l'avventura abbia prodotto nel protagonista una sorta di maturazione, ma le indicazioni a questo riguardo risultano oltremodo ambigue. Ciò che rimane, a lettura conclusa, è soprattutto l'inquietante e contraddittoria impressione di un dramma mancato, di un'occasione perduta. C'è un tempo per ogni cosa, recita l'inizio del brano dell 'Ecclesiaste da cui Flaiano trae titolo ed epigrafe del suo libro. Per nascere e per morire, per piantare e per svellere, per costruire e per abbattere; e c'è il tempo di uccidere, e il tempo di guarire. Per tutte le cose v'è un tem-• po fissato da Dio. Ma in pochi romanzi come in questo il senso della lontananza (della latitanza, anzi: della scomparsa) di Dio è reso con tanta sobria efficacia. Tempo di uccidere inscena 22 CONFRONTI Guerra d'Africa. una condizione esistenziale di trasognato straniamento e di sommessa, minacciosa assurdità: lo si coglie fin dalle movenze iniziali, in cui l'assolata paesaggio africano assume i contorni di una posticcia scenografia ("il caldo era au- . mentato e gli alberi spaventosamente cresciuti, ma sempre più di cartapesta, sempre più vecchi e untuosi, come santi di una religione scaduta"), e risulta con chiarezza sempre maggiore via via che il racconto procede. Il protagonis~, che narra in prima persona, passa da un'infastidita accidia a un perplesso sgomento a un'ossessione visionaria, senza mai instaurare con la realtà che lo circonda un rapporto di comunicazione, se non di dialogo: perciò vive la sua avventura come un succedersi di fatti incongruenti e arbitrari, il cui eventuale senso può essere attribuito solo a una maledizione occulta o a una congiura. La scoperta conclusiva della propria salute e impunità (che lascia intenzionalmente qualche ombra sulla spiegazione dei fatti) potrebbe rafforzare in lui l'egoistico rifiuto (o l'incapacità) di comprendere il significato di ciò che accade, e di addossarsi la responsabilità morale delle azioni compiute. L'autore si direbbe invece propenso a farci intendere il contrario: "L'aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile, ma non per le ragioni che me l'avevano suggerito. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso. Amavo, ora, la mia vittima e potevo temere solo che mi abbandonasse". L'ambiguità dello scioglimento lascia peraltro spazio a diverse possibili interpretazioni, e questo è sicuramente uno dei principali motivi di fascino di un libro che è solo accidentalmente, occasionalmente, un racconto di guerra. Nella sostanza, Tempo di uccidere è il ritratto di una condizione esistenziale di allucinata nonappartenenza, di auto-emarginazione corriva dalle responsabilità della vita associata: e insieme un apologo sul solipsismo morale, sull'inettitudine a concepire il rapporto con i propri simili se non in termini di sopraffazione o di contaminazione. Un tema, quindi, di attualità straordinaria, bruciante, che forse oggi possiamo apprezzare persino meglio di quarant'anni fa. Peccato che, ripresentando questo piccolo capolavoro della narrativa italiana contemporanea, l'editore abbia scelto di illustrare la sovracoperta del volume con un montaggio di fotogrammi tratti da una recente trasposizione cinematografica (che, mi dicono, nulla aggiunge al valore del libro), nel quale campeggiano, come avrebbe scritto un illustre conterraneo di Flaiano, le reni falcate' di un'avvenente Mariam. Se si voleva ad ogni costo una copertina figurativa, ebbene, una scelta meno banale avrebbe dovuto cadere su un altro personaggio. Non parlo ovviamente del protagonista, di cui il lettore non è invitato a formarsi un'immagine visiva (quello che conta di lui è la modulazione contenuta della voce, ingannevolmente torpida, segretamente febbrile), né dell' evanescente, fantasmatica "Lei" che gli scrive dall'Italia. Parlo di Johannes, il padre dell'uccisa, un vecchio taciturno che vediamo aggirarsi fra le rovine del villaggio dove i soldati italiani hanno compiuto una strage crudele quanto inutile: l'unico che davvero può aver capito tutto, eppure non parla, non accusa, non recrimina, chiuso in una rassegnazione ruvida e testarda, più fatalistica che sottomessa. Ecco, il vecchio etiope solo sull'altopiano, intento a seppellire i suoi morti- la figura di colui che, per parafrasare un altro versetto dell'Ecclesiaste, ha avuto la sventura di vedere le azioni malvage che si commettono sotto il sole - è forse l'immagine più emblematica dell'intera vicenda. E, nello stesso tempo (dacché ignoriamo quanto tenace essa potrà gravare sulla coscienza del protagonista) il segno d'una malattia dalla quale è difficile, molto difficile guarire. r-----------, I MADRIGALE I I TRIMESTRALE DIPOLITICA ECULTURA Il I ' DELLEDONNE I Lopolitico/ IsenlimentV Ilpensiero/Glispazi I I I I Edizioni ulospecchio di Alice", I I ViaFerrarecce 13,81100 Caserta I tel. 0823/327208,0815510649 L----------.J
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