PADRI E FIGLI. E I NIPOTI DORMONO ANCORA SECONDOETTORESCOlA PaoloMereghetti "Il cinema è deubitativo, non affermativo. Un film non deve dàre soluzioni. Però porre interrogativi, sottolineare certi dubbi, avvertire domande che sono nell'aria e riproporle, credo sia questo uno dei compiti del cinema. Ma non solo del cinema, di ogni altra forma d'arte". Parole sacrosante, peccato èhe a dimenticarsele, oggi, sia proprio il loro autore, Ettore Scola. Che ora è, premiato e applaudito ad un festival che, col senno di poi, sembra proprio essere stato costruito per riconciliare tutti con il cinema di casa (anche grazie a fortuite o studiate esclusioni) non perde nemmeno un minuto a interrogare e a interrogarsi, ma va via spedito con tutte le sue certezze. Tanto ostentate quanto superflue. A cominciare da una storia che sembra, per una volta, costruita "al computer", ·con tutti gli elementi che servono per garantire al suo regista il sacrosanto statuto d'Autore. Due personaggi, divisi da un congruo numero di anni, lontani ma non antitetici, messi a confronto in un tempo e uno spazio chiusi, in modo che non possano sfuggire a uno scontro che fanno fatica ad affrontare ma che proprio per questo appare tanto più inevitabile. Qualche tocco personale (uno dei luoghi di scontro è la tavola e il cibo, un altro la capacità di costruire e conservare amicizie "disinteressate"), qualche concessione sentimentale che fa tanto bei tempi andati, come il pomeriggio feriale in un cinema semivuoto e l'inevitabile orologio a cipolla del nonno ferroviere. (Ma su Maslroianni e Troisi in Che ora è. CINEMA questo vorremmo lanciare un appello: basta con i nonni ferrovieri! Possibile che solo loro, e i loro orologi, possano diventare metafore di un mondo migliore, più operaio e più lavoratore, più onesto e puntuale e rispettoso? Antoine Bloyé, quante stupidate si sono dette nel tuo ricordo!) E il gioco è fatto: il vecchio e il nuovo corso compiono il loro reciproco sacrificio, si gridano le loro colpe e i loro rimpianti e alla fine abbozzano un abbraccio dove ci si lecca un po' le ferite. E dove ognuno resta praticamente quello che era prima: un padre egoista e pieno di sensi di colpa, e un figlio quasi altrettanto egoista e più attento alle battute che fanno effetto che a cercare un vero dialogo. Dopo il flop di Splendo, (al botteghino, perché il pubblico è molto meno scemo dei critici), Scola non poteva rischiare un altro sbaglio. O forse non poteva rischiarlo Troisi (che pure qui è piuttosto bravo, mentre Mastroianni fatica a entrare nei panni di un padre colpito da sussulti pedagogici) e così invece di ripercorrere il cammino (più rischioso) di un cinema che cercava sempre di interrogarsi su se stesso, che non aveva paura di violentare la Storia perché comunque, per dirla con Dumas, sperava almeno di farle fare qualche figlio, e che cercava programmaticamente i mostri grandi o piccoli di una cronaca piccola piccola ma comunque vitale, quì Scola si nasconde dietro le metafore d'autore. Quelle metafore che fanno effetto se un film lo si racconta ma non se lo si vede, perché poi appaiono povere e stereotipate, o inutilmente comiche (quando un padre compra al figlio non più diciottenne e senza patente un'auto "alta di gamma", non ne esce la pateticità di un genitore, ma la stupidità di uno sceneggiatore. O di tutti e ti:e). In questo modo i conflitti e le contraddizioni che in passato Scola aveva saputo innescare con una indubbia efficacia anche se con una certa nàiveté, svaniscono dietro la faccia dei due attori-mattatori, lasciando nello spettatore quel senso di inutile e fredda performance che non riesce mai a trasformare le dicotomie in scambi, le antitesi in contaminazioni e i personaggi in vividi emblemi. ALTREDELUSIONI ILBUON SELVAGGIO DI IOSELIANI AnnamariaGallone Una testa decollata che viene riappiccicata al busto con sapienti spennellate sciamaniche, procaci amazzoni che cavalcano.coccodrilli e pagano le prestazioni sessuali degli uomini con caschi di banane, una natura materna e benigna i cui frutti cadono spontaneamente al suolo spaccandosi ai piedi di uomini oziosi e beati. Questa l'Africa dei ruoli rovesciati e dei rituali inventati di Otar Ioseliani nel suo ultimo film premiato a Venezia: Et la lumièrefut. La sua favoletta etnologica nella quale molti hanno ravvisato una felice ispirazione poetica, a me non è piaciuta per niente. L'ho trovata, al di làdi alcune trovate divertenti, piuttosto scontata e decisamente ambigua. Devo dire di non essere stata l'unica a ricavarne un senso di irritazione: molti di coloro che hanno amato le precedenti creazioni di Ioseliani, hanno trovato il film deludente. In particolare non l'hanno amato gli africani, che sono intervenuti alla conferenza stampa attaccando il regista con le loro rimostranze. Un critico algerino ha lamentato l'approccio neocolonialistico dell'autore, da "entomologo che osserva degli insetti" (e non posso dargli torto, ripensando al brulichio del villaggio, al suo vociare confuso che il regista non ha voluto tradurre nemmeno in sottotitoli, limitandosi ad alcuni cartoni che riassumono la vicenda - peraltro priva d'importanza-con uno stile raffinato da cinema muto. Il "buon selvaggio" è stato inquadrato con maestria e narrato attraverso belle immagini che richiamano da vicino le pagine patinate del "National Geographic".) Un giornalista delBurkina Faso si è lamentato della mescolanza di giochi intellettuali e fantastici sul tema africano con problemi di primaria importanza sui quali si sta concentrando l'attenzione del mondo, come quelli del disboscamento o della progressiva corruzione e conseguente distruzione di civiltà antiche e pure ad opera del preteso progresso dell'Occidente. Tali accostamenti possono generare confusione e malintesi su di una realtà, come quella afrièana, di cui così poco si conosce ancora oggi e di cui da sempre ci giungono immagini falsate da filtri di natura diversa. È proprio questa ambiguità ciò che più mi ha messo a disagio, e forse soprattutto le asserzioni (da catalogo o dal vivo) che loseliani ha continuato a ripetere sul suo rispetto e ammirazione per una cultura "raffinata e profonda" come quella africana. Purtroppo credo che nessuno, neanche i più convinti estimatori del regista georgiano, abbia potuto trovare nel film neanche una vaga traccia di tale raffinatezza o profondità. Anche il taglio etnografico-documen89
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