Kiarostami (Pardo d'argento all'ultimo Festival di Locarno),Ab, Bad, Khak (L'acqua, il vento, la polvere, 1989) di Amir Naderi (sempre visto a Locarno) e Bicycleran ( Il ciclista, 1989) di Mohsen Makhmalbaf (regista anche di un Matrimonio del ferito, film meno riuscito, ma molto discusso, sul ritorno dalla guerra e la corruzione del goyemo rivoluzionario). Almeno due dei film di cui parlo (quello di Kiarostami e quello di Makhmalbaf) rivelano l' esistenza, in Iran, di un cinema d'autore che si esprime su livelli di compiutezza formale e di inventiva linguistica da noi dimenticati a favore di un sempre più mitico "cinema medio". Di sicuro c'è che l'Iran non è un paese monolitico come lo presentano i mass media occidentali: l'uso della metafora e dell'ironia sembrano comunque assicurare agli autori un futuro non assopito. La prima cosa che colpisce, nei film citati, è la presenza, al centro del plot, di un bambino. Un bambino assalito, abbandonato, incompreso. Un' immaginechesembra incarnare il lutto e il senso di colpa per le migliaia di ragazzini mandati a morire sulle mine irachene, con in testa la fascia rossa di "Martire dell'Islam". Una sensazione epidermica, naturalmente infondata, ma difficile da eliminare mentre si osservano le immagini scorrere sullo schermo. In realtà, l'attenzione all'infanzia' trova spiegazione ufficiale (ce lo dice l'ormai famoso catalogo) nel fatto "che la società iraniana è caratterizzata da una popolazione giovane, il 50% ha meno di 15 anni". I film, insomma, riflettono la centralità dell'infanzia rispetto all' assetto sociale e, non a caso, sono prodotti quasi tutti dal "Film Production Centre of the Institute for the Intellectual Development of Children and Young Adults". Il fatto serve a spiegare la presenza numerica, ma non basta a spiegare l'ossessione centrale dei film, che si ripete, eguale, da un racconto all'altro (ai limiti, va detto, dello sperimentalismo, perché, come recita ancora il Catalogo: "grazie alla politica di aiuto al cinema, i nostri autori possono lavorare in tranquillità, senza preoccuparsi del botteghino"). Conserviamo tutti, chiusa nella memoria, una notte lunga e tremenda, solcata dal sogno di impotenza, minacciata dalla coazione a ripetere in un eterno ricominciamento che diventa, nell'incubo, 88 CINEMA In alto: Dov'è la casa del mio amico? di Abbas Kiarostam. Sotto: L'acqua,il vento, la polvere di Amir Naderi. immobilità angosciosa, accompagnata dall'impossibilità di svegliarsi. Io sognavo di cercare ad ogni costo di uscire dal tunnel in cui soffocavo, c'erano ancora pochi centimetri prima della luce, ancora un piccolo sforzo, eppure ... nulla. Per voi saranno state piuttosto le leggendarie e maledette scale: si cerca di salire o di scendere, ma non si riesce mai a superare il primo gradino. Frenetico movimento per agghiacciante immobilità: un incubo, una vita sul tapis roulant. Ecco, il cinema iraniano è questo: essere catturati in un frenetico attivismo che si risolve nello sbattere cieco e convulso dei personaggi contro il sempre0identico, senza che la trappola si apra mai, senza che il cerchio trovi mai una falla. Basti ricordare la storia di Dov'è la casa del mio amico?: Mohammad Reza viene minacciato dal maestro per aver ancora una voltascordatoilquadernodeicompiti. Quando Ahmad, il suo compagno, giunto a casa, si accorge di aver portato con sè il quaderno dell'amico, comincia un'affannosa ricerca nel paese di montagna che sovrasta il suo e in cui dovrebbe essere la casa di Moharnmad. Ma la casa è irrintracciabile, gli adulti sono un muro di silenzi, incomprensioni, regole ottuse e patriarcali ... Soffriamo con Ahmad la ricerca affannosa, la corsa contro il tempo e il buio che lo riporta, ogni volta, al punto di partenza, mentre il resto del mondo diventa sordo e nemico. Una storia privata, chiusa, di villaggio e di montagna. Può darsi, ma allora perché questa eterna ripetizione, angosciante, invade anche L'acqua, il vento, la polvere, un film fatto esattamente con gli elementi descritti dal titolo e, in più, un bambino perduto nell'inferno di sabbia di un lago prosciugato e desertico. Per 94 minuti (è la durata ufficiale, ma noi ne abbiamo contati molti meno) un bambino cerca di ritrovare, dentro un'immane tempesta di sabbia, la propria famiglia di nomadi. Il film non racconta nient'altro se non l' ossessivo rumore del vento e della polvere contro i microfoni e il continuo vagare del ragazzino all'interno di luoghi che la sabbia muta continuamente. Una prova per lo spettatore che, anche qui, si trova di fronte ·al racconto senza concessioni di una quete disperata e, forse, un po' insensata, racconta con desolate immagini di cui Edgar Snow sarebbe andato fiero. Il film precedente - e molto ricompensato -di questo autore, AmirNaderi, era il significativo Il corridore del 1985: un uomo corre, continua a correre, sfida così il tempo correndo. Ma la metafora diventa quasi sintomo, quando arriviamo all ciclista, filmincuisiraccontalamiseria e lo sfruttamento dei profughi afgani, prudentemente, però, ambientato in Pakistan. Nessuna spiegazione a questa dislocazione geografica, l'unica possibile sembra essere quella di dribblare in partenza una sicura censura di regime. Il protagonista, un afgano fuoriuscito appunto, svolge lavori di bracciantato a giornata assieme al figlio adolescente, quando la moglie finisce gravemente ammalata all'ospedale. Per trovare i soldi necessari a curarla- è stato un tempo campione nazionale di ciclismo - non gli resta che farsi assoldare da una specie di circo e tentare di battere il record di resistenza: sette giorni senza mai smettere di pedalare, notte e dì. Attorno al cerchio che racchiude il suo percorso ripetitivo e atroce, si raduna lentamente un'umanità variegata e surreale e lo sforzo del1'uomo, all'inizio manipolato dalla mafia locale, si riso!ve in un momento di riscossa degli esuli afgani. Non a caso, in una delle sequenze del film si intravvede l'americanoNonsi uccidono così anche i cavalli? trasmesso dalla televisione. L'opera di Pollack è, in effetti, il modello narrativo cui fa riferimento MohsenMakhmalbaf, ma spingendo la propria regia piuttosto verso la deriva di un espressionismo visivo e sonoro dai toni esasperati e surriscaldati, senza troppi problemi di fedeltà al reale e alla medietà del racconto. Nato nel 1952 a Teheran, il regista, che ha partecipato alla resistenza contro il regime dello Scià e ha scontato 5 anni di galera dal 1974 al 1979, è l'unico a dichiarare apertamente di essere impegnato in un Centro per la Propagazione del Pensiero Islamico attraverso l 'Arte, alla ricerca della possibile espressione artistica del punto di vista religioso. Eppure tutto questo, nel suo film, non appare. Appare unicamente, ancora una volta, la grande ombra che grava alle spalle dei personaggi del film. Come se un'immensa trama di impedimenti nascondesse possibili soluzioni e limpide realtà agli occhi di tutti, obbligando a dibattersi ossessivamente, ostinatamente, contro le vischiosità del nulla. Chi pensa sia retorica definire, oggi, lo Stato Iraniano come un incubo kafkiano deve leggere, almeno una volta, tra le righe dei discorsi indiretti proposti dai film di questo paese. Io, per quanto mi sforzi, non riesco davvero a trovare termine meno abusato, ma più efficace, di "kafkiano", per descriverne l'essenza.
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