TEATRO INCUBO AMERICANO SEIMONOLOGHI EricBogosian a cura di Mario Maffi Gli anni ç)ttanta stanno dunque per finire, e ci si comincerà a chiedere che cosa sono stati- forse anche in base a quel meccanismo che privilegia il dossier retrospettivo rispetto al bilancio del passato e all' analisi del presente. Per chi si occupa di "cose americane", poi, il decennio che sta per finire rischia di presentarsi come uno dei più enigmatici: soprattutto se si cede alla tentazione di limitarsi all'apparenza fenomenica, all'immagine televisiva, agli indici del mercato culturale. Che cosa sono stati infatti gli anni Ottanta americani?·sono stati davvero solo il trionfalismo-ottimismo-narcisismo, la pace sociale, la scomparsa d'ogni c~mtraddizione, gli yuppies, Wall Street, il reaganismo (ammesso che abbia senso-e per me non l'ha - la riduzione di una qualunque fase storica al1' individuo, questo "battilocchio della storia", come ebbe a definirlo Amadeo Bordiga)? e, sul versante culturale, sono davvero scomparse le voci critiche, davvero non c'è nient'altro che l'ultimo esperimento post-post-minimalista, l'ultimo romanzo di Saul Bellow e Tom Wolfe, l'ultima commedia di David Mamet? Limitarsi a ciò ( a ciò che appare, a ciò che vende, a ciò che passa l'industria culturale e dell'immagine) sarebbe tragico. È invece necessario compiere un grosso sforzo per guardare dietro lo specchio e sotto la superficie, alla ricerca di quanto-pur tra difficoltà enormi, fragilità e insufficienze - ha mantenuto una sua identità altra rispetto al diffuso conformismo di segno e orientamento diversi. Scopriremo allora quei tesori forse piccoli ma importanti, fatti di rifiuto di subordinarsi, di omologarsi e di uniformarsi, che ci fanno capire quanto la realtà americana sia percorsa da tensioni, sia segnata da fratture, e come tutto ciò non potrà non intaccare quella crosta tronfia e soddisfatta. Uno di questi tesori (che è anche colpa nostra -per spocchia, ignoranza, indifferenza - se affiorano e arrivano così raramente), è appunto Eric Bogosian. Confesso subito di provare un certo disappunto nello scrivere di Bogosian. Due anni fa, al Public Theatre di New York, vidi un suo dramma, Talk Radio, e mi parve un testo notevole. Tornato aMilano, cercai di farlo conoscere, e lo diedi da leggere a registi e attori. Fu accolto con entusiasmo, ma non se ne fece nulla: peccato, per il discorso di cui sopra. Ora, se non altro, c'è il film di Oliver Stone, interpretato da Bogosian stesso, e il pubblico italiano può così conoscere questo straordinario persohaggio del più recente teatro statunitense. La scena di Bogosian (che è nato a Boston nel 1953) è quella della stand-up comedy, un genere da noi poco conosciuto e poco praticato (anche se i talenti non mancano: faccio solo i nomi, fra loro diversi, di Paolo Rossi ed Enzo Moscato). Un genere che in America viene da lontano, da certe forme di spettacolo popolare dell'Ottocento in cui si mescolava umorismo della frontiera e nascente cultura urbana, e dall'intreccio di queste forme con filoni teatrali legati alle espressioni culturali delle comunità immigrate nel paese a cavallo di Otto e Novecento (le macchiette napoletane, i monologhi del teatro yiddish, gl'intrattenitori del vaudeville etnico): un terreno che prima o poi andrebbe esplorato con maggiore attenzione. Il nome più famoso di questo genere di teatro, in cui la comicità è invariabilmente amara e spietata e il comedian diviene specchio e bersaglio delle ansie e dei vizi, degli aneliti e delle meschinità del suo pubblico e dell'America tutta, è ovviamente quello del grande Lenny 74 Bruce. E, di Lenny, Bogosian è sicuramente un erede legittimo: il che, lungi da essere un difetto, è un pregio non da poco. Ha quella carica dissacratoria, quella dimensione notturna e a volte grottesca, quell'aggressività nel mettere a nudo, nel trascinar gli scheletri fuori dagli armadi del perbenismo, dell'ipocrisia e del puritanesimo americani, che erano proprie di Lenny Bruce. Ma a essi aggiunge il disincanto di una generazione passata attraverso il post-Vietnam con tutto ciò che, sul piano politico, culturale, ed esistenziale, quell'esperienza ha voluto dire. Aggiunge il paradosso e quell' amore per l'assurdo e il kitsch come cartine al tornasole della condizione americana che sono propri di protagonisti della scena culturale di questi ultimi anni come i Talking Heads o LaurieAnderson o Kathy Acker, e li coniuga a quella tradizione di rabbia roca mai sopita nei grandi rockers alla Lou Reed. Sono la rabbia, il paradosso, e il disincanto - quasi cinici, paranoici, a volte irritanti e indisponenti, ma in fondo ancora colmi di desiderio e di passione ( o forse: di desiderio di passione) - di Barry Champlain, il conduttore della trasmissiorte radio in Talk Radio, che duella con le voci della notte - una notte reale e metaforica che esalta in modo ancor più angoscioso la devastante solitudine americana: le controlla e le orchestra, le attrae e le respinge, con calore e con impudenza, con insensibilità e con vulnerabilità, guardando in faccia il grande il)- cubo americano e al tempo stesso facendone parte, in un crescendo che non può non giungere a un climax, non può non mettere di fronte l'individuo e la parte peggiore dell'America. E questo, lo si voglia o no, faccia o meno piacere, è teatro politico, un teatro politico che sceglie forse v,ie diverse da quelle cui si era abituati quindici anni fa, ma che non è meno efficace. Talk Radio, con le sue voci che rimandano ad altrettante esistenze (qualcosa che ricordaLa piccola città di Thornton Wilder, o Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas), è uri po' una summa dell'operadiBogosian. Che, nei monologhi e solo pieces messi in scena al Public Theatre, alla P.S. 122, alla Franklin Fumace, ali' American Piace Theater di New York, come Men /nside (1982), Fun H ouse (1983), Drinking in America (1986, Drama Desk Award e Obie Award), e il recente Sex, Drugs and Rock.'n' Roll, ha disegnato un'autentica "commedia umana", una galleria di tipi, frammenti e pezzi di personalità diverse, fino a ottenere unariflessione spietata su che cosa è il deserto americano - I'"incubo ad aria condizionata" come lo chiamava Henry Miller. Nel vuoto della scena spoglia, vestito di nero, instancabile dinamo di energia, Bogosian anima questi personaggi che sono i personaggi comuni di un giorno quhlunque in un posto qualunque. E diviene la vera voice of America: un'America che è sempre più mondo, una voce che parla di solitudini tremende, di odii viscerali, di desideri insoddisfatti, di bisogni che non riescono nemmeno a prender forma e si sfogano così spesso nella meschinità, nella violenza, nell'autodistruzione. Questo dunque è Eric Bogosian: un altro grosso artista, notturno, amaro, e non-riconciliato - con la sua America, con la nostra America. I testi che pubblichiamo sono tratti daDrinking inAmerica, Funhouse e Men /nside.
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