Linea d'ombra - anno VII - n. 43 - novembre 1989

L'IMPORTANTE È SCRIVERE Incontro con Agota Kristof a cura di Enrico Lombardi Neuchatel è una tranquilla città della Svizzera Romanda, uno dei principali centri di un'industria oro logera dall'inalterato prestigio ma·dalfuturo incerto. In una delle molte fabbriche di orologi ha lavorato per qualche anno anche una profuga ungherese dal nome curioso, quasi fosse frutto delle bizze d'una linotype dei "gialli Mondadori": Agota Kristof Era giunta in Svizzera ventunenne nel '56 per sfuggire alla repressione sovietica dopo un'infanzia passata in guerra, nel villaggio natale di Koseg, e un'adolescenza vissuta infretta.facendo appena in tempo a terminare gli studi liceali e a impiegarsi.forzatamente, in un'industria tessile.L'esilio porta con sé la necessità di integrarsi in una realtà completamente nuova: in fabbrica, a Neuchatel, impara faticosamente ilfrancese. Poi il matrimonio e trefigli. Per qualche anno lascia il lavoro, vive in casa una non facile esperienza famigliare. Tuttavia decide di iscriversi alla locale università dove segue corsi di lingua e letteratura francese e comincia a scrivere, in francese, testi teatrali e radiodrammi che ottengono un relativo riscontro. Si afferma invece, riscuotendo ampi consensi, con il suo primo romanzo, Le grand cahier, che esce a Parigi da Seui[ nel 1986 e che la impone come ,una delle rivelazioni letterarie dell'anno. Il libro, edito in versione italiana da Guanda nel 1988 a cura di Armando Marchi con il titolo Quello che resta racconta in modo scarno e crudo quanto tenero epoetico l'iniziazione alla vita di due gemelli, catapultati da un ingiusto destino nella desolata e spesso agghiacciante realtà della guerra. È la storia di una maturazione precoce eforzata che passa attraverso innumerevoli prove sostenute dai due ragazzini come un vero e proprio succedersi di esercizi: dall'irrobustimento del corpo a quello dello spirito, dal digiuno alla crudeltà fino allo studio e ali' apprendimento della lingua scritta. Ogni esperienza è vissuta con la piena consapevolezza della drammaticità di una condizione che esaspera e stravolge i "normali" rapporti umani ma in cui tuttavia è possibile, anzi necessario, rinvenire quei lavori che la sappiano trascendere. Alla fine, ultima è più dura prova, per i due gemelli giunge il momento della separazione. È proprio questa prova a dare il titolo e a costituire l'avvio della vicenda del secondo romanzo diAgotaKristof, Lapreuve uscito sempre da Seui[ nel 1988 epubblicato recentemente, nella traduzione italiana di Virginia Ripa di Meana, ancora dalle edizioni Guanda, con il titolo La prova. Nello scenario; qui ben più riconoscibile ed esplicito, d'una campagna ungherese che dalle macerie della guerra vede nascere e profilarsi un triste e lugubre futuro, Lùcas aitende il ritorno del gemello Claus prendendosi cura del piccolo Mathias e combattendo la propria solitudine con la scrittura di fitte pagine di diario. Una prova inesorabile, che condurrà al vorticoso quanto dolente epilogo: il ricongiungimento è impossibile ma allo stesso tempo è già avvenuto, poiché ognuno dei duefratelli porta con sé la profonda coscienza di vivere nell'altro e per l'altro, proprio come rivela la non casuale anagrammabilità dei loro due nomi. Nel suo modesto ma accogliente appartamento, in una vecchia casa popolare di Neuchatel, Agota Kristof sta lavorando al suo terzo libro. Con quella sua aria timida e il sorriso malinco62 nico, dice: È ancora presto per parlarne non so che cosa ne uscirà. Ho sperato a lungo di potermi allontanare dai due gemelli, ma credo proprio che continuerò a scrivere di loro. Perché ha scelto due gemelli come protagonisti dei suoi libri? Fondamentalmente per duemotivi. Anzituttoperché le vicende che racconto sono in buona parte autobiografiche, sono storie e fatti che ho vissuto quando ero bambina nel mio paese assieme a mio fratello. Facevamo tutto assieme, eravamo inseparabili. Perciòquando hopensato di scrivere quelle storieera naturale che i protagonisti fossero due. Ma in più questo fatto mi ha permessodi evitare l'uso dellaprimapersona singolare. Insomma nonmi andava di scrivere "io", mi piaceva molto di più l'idea di utilizzare sempre la prima persona plurale e di farne, in qualche modo, uno dei tratti distintivi della narrazione. Credo che questo, naturalmente per ciò che riguarda Le grand cahier, sia uno degli elementi originali della mia scrittura. Io almeno non conosco altri esempi di questo genere. Ovvio·chenel secondo libro non ho più potuto applicarlo, dato che protagonista del romanzo è uno solo dei due. · In lei c'è stata dunque, da subito, una forte coscienza dell' operazione letteraria che stava compiendo. Su che basi si èformata? Qual è il suo rapporto con la scrittura? Prima di venire in Svizzera ho scritto delle poesie in ungherese che però non sono mai state pubblicate. Ho cominciato molto presto anche con i testi teatrali: ne ho scritti alcuni per le recite di fineannonella mia scuola.Dopo il mio trasferimentoaNeuchatel hocontinuato a scrivere inungher~se, specialmentepoesie che ho in parte pubblicato nella "Gàzette littéraire hongroise", una rivista che esce a Parigi per iniziativa di un gruppo di esuli come me. Ma intorno al '70 ho avuto una specie di crisi di linguaggio: l'ungherese non lo possedevo più abbastanza per mancanza di pratica. Tutti intorno a me parlavano francese e io stessa, ormai, mi esprimevoin francese. Sicchého iniziato a scriverenellamianuova lingua, traducendo miei testiprecedentemente scritti in ungherese. Un'operazione, mi pare, un po' folle che ho ben presto abbandonato passando a scrivere direttamente in francese. All 'inizio si trattava di veri e propri esercizi di stile; poi, via via che mi impratichivo e sentivo di possedere sempre più la lingua, sono passata ai testi teatrali, i più facili, mi pare, per chi decide di scrivere in una lingua che non è quella materna. Sono più facili perché, per loro natura, sono incentrati sul dialogo, permettono di evitare molte descrizioni e di utilizzare un linguaggio corrente. Ne ho scritti una ventina, fino al 1982. Alcuni di essi sono anche stati messi in scena qui a Neuchatel. In quello stesso 1982 ho cominciato a scrivere Le grand cahier, che a dire il vero, non pensavo affatto potesse diventare un romanzo. In effetti l'ho concepito a lungo come una raccolta di racconti che avessero per protagonisti sempre gli stessi person<!,ggie, a lungo, dentro di me, quei racconti li chiamavo "scene" proprio come fossero destinati al teatro. Il punto di partenza sono stati gli "esercizi", che io stessa avevo compiuto con mio fratello durante la mia infanzia. Terminatala prima stesurami sonmessa a riordinare tutti quei bevi episodi e ricordi in modo che ne uscisse qualcosa di unitario. Quando il libro mi è sembrato pronto - era il 1984- l'ho spe-

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