Linea d'ombra - anno VII - n. 43 - novembre 1989

~ L'IMPORTANTE E NON DARSI IMPORTANZA Incontro con Elena Poniatowska a cura di MariaNadotti Se, a Città del Messico, si leggono i giornali, sifrequentano le librerie, i teatri o semplicemente i fatti del giorno di maggior rilievo, nel nome di Elena Poniatowska sifinisce per imbattersi di necessità. Sue sono infatti le presentazioni dei libri (almeno quelli afirma femminile) più belli epiù venduti del momento;sue le cronache teatrali che a ritmo settimanale escono sul quotidiano indipendente "La Jornada" e suo un tipo tutto specialedi réportage giornalistico, a cavallo tra testimonianza, controinformazione e letteratura, che ha riabituato i lettori alla cronaca a puntate e l'editoria alla ,:accoltae ristampa di blocchi di articoli che, assemblati, hanno la tenutae la densità di un corpus narrativo autonomo. Suoi ancora sono alcuni libri difinzione o semi-fintione (piccole biografie de/l'immaginario, come quel bellissimo Querido Diego dedicato qualche annofa aAngelica Beloff,prima moglie.del pittore DiegoRivera, o Hasta no verte, Jesus mio), dove gli elementi della realtà si annodano e si confondono con altri ingredienti,piùfantastici ma non menoplausibili, voluti dall'autrice come commento, interpretazione o semplicepresa diposizione non oggettiva, simpatetica,partigiana versopersonaggi ambiguamente in bilico tra cronaca e invenzione. E sua è una recente sceneggiatura cinematografica di grande successo, Gaby, costruitasul raccontodi vitadi unagiovanehandicappata,che la Poniatowska assiste(eprobabilmente incoraggia) nella stesura di un testo difficile, continuamente esposto ai pericoli del patetico, del/' ipersentimentale, dell'edificante. Secondo categorie nostraneper fortuna non applicabilialla situazionemessicana laPoniatowskapotrebbe esseresbrigativamente classificatacome un'intellettuale militante efemminista. E se abitassedalle nostreparti, dato il suo successo e il relativopotere derivatone, sarebbe unpersonaggio con buonaprobabilità infrequentabile: troppo votato a giuste cause o troppomondano, sazio, banalizzato dai riconoscimentie dalla routine di un ruolo sociale indiscussoeprestigioso. Lei invece, minutae bionda, cinquantacinque anni circa,jrancese di nascita e di lingua,polacca d'origine e messicanaper scelta, sarà per modestia o insicurezza,per ironiaoper distrazione,al gioco deipiccolipotenti non hamai volutogiocare, néa quellodelle giovanne d'arco. E la sua scrittura, come le sue scelte d'argomento, parlano con lucidità e acutezzadell'utilità sociale e civiledel lavoro letterario,ma altrettanto del piacere di giocare con le parole, le proprie e quelle degli altri. Avvicinarla è stato semplice: è bastato telefonarle (il suo numero è sull'elenco) e chiederle un incontro.L'invito a raggiungerla aCoyoacan, il quartieredi CittàdelMessicodoveabita (vicino alle case di Frida Kahlo e di Trotskij), è immediatoe sembra dettato da un misto di disponibilità e di curiosità.A questo primo momento, che riesce comunquedifficile definiredi intervistaformàle, seguiranno unaserata insieme a teatroe, dopoalcuni giorni, una cena. Quantosegue è laricostruzionedialcunipassaggi di unaconversazione che quasi mai ha assunto l'andamento del domandai risposta e che - sconvolgimentoper la sottoscritta, abituata a entrare con i suoi intervistati in un rapporto rigorosamenteduale- ha sempre avuto laforma di una chiacchierataapiù voci e più protagonisti.Elena Poniatowskainfatti non èmai sola.Intorno a lei si muove unpiccolo mondo di amici.figli, studenti,a cui la scrittricenon vuole o non sa dire di no. Maforse il concettodi privacy messicano non ha nulla a che vedere conquello europeo e le areepubblico/privato non sono qui tenute separate come da noi, unpo' afatica, si è imparato afare. Alla prima conversazione essendo presente una studentessa nordamericana laureanda inWomen's Studies, specializzazione scritturaalfemminile, argomentod'obbligo è se esistanouna letteratura e una lingua delle donne e quali ne siano natura e caratteristiche. "No che non esistono", attacca la Poniatowska, "l'unica cosa che esiste è che le donne, specialmente in America Latina, hanno avuto minore possibilità degli uomini di scrivere. Perché nessuno crede in loro o se ne occupa. Finiscono tutte suicide." Suquesta battuta il tono le sifa allusivo e sarcastico e la voce assume cadenze da cantilena, come sefosse all'inizio di una carrellata ironicoannoiatasul déjà vu delle miserie alfemminile. "Dunque è difficile per le donne scrivere romanzi fiume come I Buddenbrook o saggi alla Derrida. Va a finire che scrivono-vedi Virginia Woolf- su quanto è difficile vivere o su quanto è difficile restare vive. Il che è personale e autobiografico, ma non credo che questa sia necessariamente una delle specificità della scrittura delle donne. Diciamo invece che qui ci mancano le opportunità di scrivere e di vivere della nostra scrittura. In Europa forse è più facile, anche se pensando a Katherine Mansfield non sembra. Non che per alcuni uomini la problematica non sia la stessa, ma sembra che dietro di loro ci sia sempre qualcuno che se ne prende cura. Le donne invece sono sempre sole e devono occuparsi di se stesse, senza poter contare su nessuno. Per continuare con l' esempio della Mansfield: il suo mettersi nelle mani di Gurdjeff non era forse l'attesa del miracolo? La vita femminile è una tragedia." Le parole di Elena, pur così dirette e estreme, sanno tenersi al di qua del melodrammatico,perché somigliano a una constatazione, né c'è in esse alcuna indicazione di superiorità, di disprezzoper lealtre donne odiquelfastidioso ideologicoatteggiamento che cerca identità dove c'è solo condivisionedi una situazione non del tutto ideale. "La vita delle donne è dura, Prendi Suor Giovanna della Croce e Rosario Castellanos. A seicento anni di distanza, la loro storia è identica e identico il loro modo di rappresentarsi: non vengono accettate, si pensa che siano pazze, e loro sempre lì a chiedere di essere perdonate, a dire mi dispiace, a comportarsi come se non avessero alcun valore. Il loro discorso è lo stesso: se si scusano non è perché cerchino di essere accettate, di ingraziarsi qualcuno. Lo fanno, perché è quello che davvero sentono. Prendiamo una donna sofisticata e una scrittrice di grande pregio come Marta Traba: dopo anni di successi e di riconoscimenti in Messico, decide di ritornare nella sua terra, l'Argentina, e di ricongiungersi allemadridiPlazadeMajo. 'La loro' dirà 'è la inia stessa voce'. La letteratura delle donne, almeno in America Latina, è parte della letteratura degli oppressi. Siamo un gruppo di minoranza, piccolo e marginale. Ma, in qualche modo, si può dire lo stesso anche della letteratura occidentale. Anche Erica Jong, a guardare bene, è un esempio di totale scontentezza. Il suo discorso è insistentemente rivolto a mostrare che le donne non si muovono sullo stesso livello degli uomini. O ancora una come Gioconda Belli, che arriva alla conclusione che tutte condividiamo lo stesso de57

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