Linea d'ombra - anno VII - n. 43 - novembre 1989

SAGGI/DIHNIDlffl IL LABORATORIO DI BILENCHI Giacomo Debenedetti Se leggiamo alcuni dei racconti che Romano Bilenchi ha da poco ripubblicati nella raccolta Mio cuginoAndrea (salvo un'esclusione e due aggiunte, sono gli stessi di Anna e Bruno: insieme con i sette di Dino, i due de La siccità e il romanzo Conservatoriodi S. Teresa costituiscono tutto il bagaglio, non ponderoso, che lo scrittore ha messo insieme nel decennio di lavoro 19301940), seleggiamo alcuni di quei racconti, siamo subito colpiti da una evidenza limpidissima, tutta in luce, che si accompagna con una singolarità piuttosto misteriosa dell'andamento. Per esempio: un operaio, armato di coltello e di pietra da affilare, sta inseguendo la moglie adultera; si imbatte in un ragazzo rimasto chiuso fuor della scuola, si accompagna con lui fino alla sua casa, dove resterà a desinare (Il bambino) . Bilenchi è partito da uno spunto passionale e subito se ne è sbarazzato; ha sfiorato la suggestività poetica (non rara, un po' canzonetta, ma sempre efficace del paragone tra un bambino che arranca verso la scuola e un omicida che corre al misfatto, e anche di qui si è sganciato; rasenta infine il celebre "grottesco" dell'uomo tradito che si ripromette sangue e va a finire in vino e pagnottelle, una specie di versione paesana de "la maschera e il volto", ma neppure su questa posa l'accento. Ha trattenuto il racconto sul ciglio dei tre versanti, lungo i quali più volentieri poteva prendere l'abbrivio, ha evitato le linee di massima pendenza. Esempi del genere si potrebbero moltiplicare (Terzetto,Il delitto). Alla possibilità che butta via, Eilenchi sostituisèe qualche cosa d'altro? Apparentemente, nulla. Eppure noi seguiamo questi suoi racconti con una attenzione stranamente compromessa, quasi che fossimo sollecitati da una specie di sotterranea solidarietà. Se un albero fosse munito dei cinque sensi, se ci sapesse raccontare le storie del nostro mondo come lui le osserva dall'interno della sua vita vegetativa, probabilmente i risultati non sarebbero senza qualche analogia con quelli di Bilenchi. Riconosceremmo i fatti, non ritroveremmo la prospettiva in cui siamo soliti schierarli. Gli accenti - posto che ne ritrovassim9- difficilmente cadrebbero sulle sedi che ci aspettavamo. Vorrà direche se, alla fine, ci saremo ugualmente interessati, in parte lo dovremo alla generica simpatia vitale che ci lega alla vita vegetativa dei! 'albero. Anche nella "pianta uomo" esiste in qualche modo l'albero, che affonda le sue radici nella natura e nella terra, da loro trae alimento', a loro si affida come a supreme regolatrici dei suoi processi vitali. Ma quella che nell'albero era vita vegetativa, qui diventa più largamente vita organica. E lecito supporre che l'impulso donde nascono i racconti di Bilenchi sia proprio un risentirsi di questa vita? il movimento da cui "sonoagiti", (quello che li porta avanti, propizia l'apparire e il dileguare delle figure, annette a abbandona gli episodi) sia il flusso, ancora, della stes.sa vita? Della quale troveremmo depositario- lo potessimo isolare, guardare in faccia - un individuo geloso, caparbio, astuto, assorto in se medesimo, poco curante di fornire spiegazioni al personaggio esterno, entro il quale lo rinchiudiamo per portarcelo attraverso i nostri drammi. Lui è un utilitario, un semplificatore. Possiede il minimo di parole e di crite42 ri necessari a classificare ciò che giova e ciò che nuoce ai suoi processi, registra gli avvenimenti nell'ordine in cui si succedono a favorirli ed ostacolarli. Quell'essere si regola in base ad alcune immagini, che compongono la sua compatta mitologia. È lui l'inventore dei miti materni e terrestri, a lui si deve l'identificazione - antica quanto i secoli- della terra e della madre, le due nutrici. Per l'appunto, tra i motivi di Bilenchi, uno dei più insistiti è quello del bambino che si mette in comunione con la terra per il tramite della madre. Dai racconti passa nei primi capitoli del Conservatorio, che lo sviluppano· fin quasi a renderlo moméntaneamente esausto: il protagonista Sergio si sente più o meno disposto a riceverne equilibrio o benessere o turbamento, a seconda che la madre, quando lo accompagna sulle colline o al fiume, gli si dimostra più o meno amica. Quell'essere ha poi le sue massicce superstizioni. Nel racconto La Mamma c'è un giovane (ragazzi o giovani sono tutti i protagonisti di Bilenchi: i limiti d'età, per ottenere da lui una parte principale, oscillano intorno ai vent'anni) che ammala per eccessi erotici. Forse non tutti i medici riconoscerebbero, nei sintomi di Marco, gli effetti di un abuso di Venere. Tale in ogni caso è la diagnosi di Marco e del narratore: e rispecchia le minacce con cui la vita organica si diffida da certi atti troppo dispendiosi. Si capisce come la scenografia di questi racconti debba essere piuttosto limitata, e a definirla bastino indicazioni relativamente sommarie. Al senso organico poco interessa la diversità, la decorazione: gli importa di riconoscere di primo acchito l'influenza, gli effetti che un ambiente può esercitare. Riduttore anche in questo, assimila la varietà dei luoghi sotto pochi denominatori. In Bilenchi ne troviamo tre: la casa, la città, la campagna. Quest'ultima sappiamo già che cosa significhi. Quanto alla casa, è il nido e la tana, il rifugio per nascondervi le mortificazioni della miseria e della malattia, il luogo dove la convivenza- nella forma privilegiata e obbligatoria della famiglia- offre i primi aiuti, oppone i primi ostacoli. Nella città la concorrenza vitale si fa più eso- . sa: Bilenchi ha voluto che le sue fossero piccole città provinciali, per rendere inevitabile, provocatorio il gomito a gomito. È giusto che a quelle città non dia un nome; che di quelle case non faccia l'inventario, se non per ciò che basta a suggerirci il grado di agiatezza o di indigenza; che delle campagne accenni quasi soltanto agli aspetti generici: colline, crete, fiume. La particolare solidarietà che ci collega a questi racconti supplisce al resto: da come vanno le cose, ci par di indovinare come debbono essere i luoghi: colori, luci, sagome e perfino odori. Bilenchi non ha bisogno - come si soleva dire in lode di certi impressionisti - di essere un occhio: le variopinte scorribande del1'impressionismo non fanno al caso suo. I momenti in cui cede alle tentazioni dell'occhio si eliminano quasi sempre, da soli, come superflui pettegolezzi dell'occhio. La stessa sorte tocca anche a quei pettegolezzi dell'occhio interno, che sono le descrizioni psicologiche. Qualche volta, per certi moti particolari dei suoi personaggi (mai per l'insieme del racconto, che sarebbe un tradirlo, disertare dal dominio organico in quello intellettuale o morale) Bilenchi si lascia sedurre dalla psicologia. E può darsi che succeda quando non gli sia riuscito di captare per intero il messaggio di quel mondo da cui il racconto

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