IL CONTESTO La strada della persuasione La stasi strategica di Carlo Michelstaedter Paolo Giovannetti È molto probabile che non poclù lettori comuni, annusatori di librerie e più o meno attenti compulsatori di recensioni, siano stati in questi anni incuriositi dalla comparsa di numerosi scritti di e su Carlo Michelstaedter. Nel 1982La persuasione e la rettorica, l'anno successivo l'Epistolario, nel 1987 le Poesie, sul finire del 1988 Il dialogo della salute e altri dialoghi (tutti Adelplù); e poi, appunto, frequenti articoli su periodici, un convegno internazionale nel 1987, persino un'edizione semiclandestina del Dialogo; per non parlare infine dei volumi monografici, fra ristampe e inediti, di cui francamente ho perduto il conto (I 'ultimo da segnalare, se non sbaglio, è di Piero Pieri, La scienza del tragico, per Cappelli). Curiosità nei lettori potenziali, certamente (anche se sull'effettivo consumo di Michelstaedter personalmente avrei qualche dubbio), e forse agisce pure l'immagine romantica e sempre affascinante del suicida giovanissimo che lascia al mondo una ricca eredità di-sapere. Però, io e qualche altro lettore finiamo anche per nutrire non poclù sospetti verso quella che sembra essere diventata una moda. Perché tanto discutere su Michelstaedter? Perché il suo pensiero sollecita interpretazioni e attualizzazioni così appassionate? È il caso di prendere le cose da lontano, partendo da un modesto rilievo filologico e, come dire?, deontologico. Nato nel 1887 e morto nel 1910, Michelstaedternon ha pubblicato quasi nulla in vita. Oltre alla sua tesi di laurea (La persuasione e la rettorica, con relative Appendici critiche) e a un ristrettissimo numero di articoli su quotidiani goriziani, tutto quello che di lui leggiamo altro non è che una produzione privata, talvolta privatissima (come le lettere), la cui destinazione pubblica è per lo meno dubbia: l'autore cioè scriveva soprattutto per sé e per i suoi destinatari occasionali, non pensando di rivolgersi a un pubblico universale. Ed è indiscutibile merito di Sergio Campailla, l'odierno curatore dell 'opera michelstaedteriana, averci più volte ricordato questo elementare rilievo, proprio nell'atto di presentare i volumi degli anni Ottanta. Ma il problema rimane. Beninteso, l'acquisizione di un inedito è sempre un 'operazione del tutto legittima, e anzi auspicabile: ma di solito si applica a personaggi in qualche misura già pubblici, cioè appunto editi; è invece del tutto anomalo che uno scrittore diventi tale indipendentemente dalla sua volontà positivamente espressa. E un altro bizzarro record può ess_erericonosciuto a Michelstaedter, cioè quello di essere stato 'recensito' per la prima volta da un critico, Giovanni Papini, che del giovane goriziano suicida aveva solo sentito parlare, non esistendo di fatto, nel 1910, testi di Michelstaedter da leggere e da recensire. Un'altra sconcertante questione riguarda la collocazione istituzionale di questa massa di scritti. Li dobbiamo ascrivere alla letteratura o alla filosofia? Le poesie di Michelstaedter posseggono infatti contenuti speculativi di grande rilievo, i testi filosofici si aprono spesso ali' exemplum, all'allegoria, alla parabola, e anche i dialoghi pencolano tra l'asciuttamaieutica del modello platonico e l'invenzione bizzarra dellamenippea o di certe Operette morali leopardiane. In più c'è uno stile decisamente irrequieto, in cui il bilingue Michelstaedter, suddito dell'impero austroungarico, coniuga l'italiano al tedesco e, molto più spesso, al greco dei modelli filosofici prediletti; e, da studioso di matematica rientrato, non teme di illustrare con formule di calcolo infinitesimale i postulati teorici della sua teoria. Ne viene fuori una scrittura composita, anche se non necessariamente espressionistica, che chiede al lettore una disponibilità culturale pressoché illimitata. Le conseguenze sono state, e sono, imbarazzanti, perché da un lato la lettura letteraria di Michelstaedter rischia di essere frustrata dalla massiccia presenza di filosofemi, dall'inaridimento di molte virtualità espressive (significativa per esempio l'incomprensione di Giacomo Debenedetti, che finì crocianamente per smembrare la compagine michelstaedteriana, alla ricerca degli attimi di lirismo), mentre dall'altro lato il filosofo specialista, almeno sino a una 30 quindicina d'anni fa, non poteva non sentire come incompiuto un discorso che si affida spesso ai traslati, al mito, ali 'immagine emblematica, invece di percorrere linearmente le strade di un argomentare sistematico. Di qui, tra l'altro, la frequente ortopedizzazione di Michelstaedter. Gli studiosi di filosofia, soprattutto, hanno sentito il dovere di glossare, integrare, completare un pensiero in qualche misura lacunoso. Un paio di generazioni di idealisti (da Giovanni Gentile ai fedelissimi amici di Michelstaedter, e suoi primi editori, Vladimiro Arangio-Ruiz e Gaetano Chiavacci) hanno coniugato quelle proposizioni così clùaramente adialettiche, almeno nei loro contenuti specifici, con la sistematicità dell' attualismo; analogamente, anche se con migliori ragioni, quando in Italia si sono diffuse le filosofie di Heidegger e di Sartre, si è scoperto in Michelstaedter quasi il precursore dell'esistenzialismo; e non sono del re- · sto mancati i connubi più equilibristici, come quelli cattolicesimo-Michelstaedter (lui, israelita di famiglia e ateo), o addirittura riletture in clùave fascistoide, da parte di chi vi ha visto uno degli "spiriti della vigilia" (Corrado Pellizzi) oppure il fautore imperfetto dell"'idealismo magico" (Julius Evola). Più legittime, ma forse egualmente forzate, le riconversioni in direzione marxista, anche se di un marxismo francofortese (Marco Cerruti, soprattutto), nonché i tentativi qualche volta eccellenti (come nel caso di Massimo Cacciari) di interpretare il pensiero di Michelstaedter sullo sfondo della crisi mitteleuropea, magari avvicinandolo aWittgenstein o al giovane Lukàcs. Ma la nota oggi forse dominante è quella di un heideggerismo spesso indigesto e confusivo, che brilla soprattutto per la sua caccia volenterosa ai falsetti esegetici più spericolati, sopra l'ossessivo blablà del pedale Nietzsche-Heidegger. · Resta dunque un'impressione vagamente sconcertante, come se La persuasione e la rettorica, le Poesie, i dialoglù e i tanti appuntidiMichelstaedter fossero una massa informe di segni ricomponibili a piacere, leggibili in direzioni divaricate e contraddittorie, ma tutte in qualche misura legittime. Si sarebbe anzi tentati di diagnosticare una sindrome di fungibilità infinita: dato un testo 'aperto', sta al lettore ricomporlo a suo piacimento, enucleandone ciò che più gli aggrada. Anche qui, sia chiaro, nulla di particolarmente sconvolgente; e tutti più o meno sanno che I' arte moderna è fatta in quella maniera lì, che le interpretazioni e i significati sono infiniti, eccetera eccetera. Ma, insomma, quanto di quella apertura è frutto della nostra dissezione esercitata s_uun corpus testuale costituito, anche, di frammenti precari, e quanto risale alla volontà progettuale dell'autore? Non è che, nel caso di Michelstaedter, si sia messa in dominante proprio l'apparenza, banalmente meccanica, di magma testuale composito fatto di scritti compiuti ma anche di foglietti volanti, fra i quali è dato pescare tutto e il contrario di tutto? E, infine, questo gigante della filosofia contemporanea non è per caso stato fatto lievitare da fermenti astorici e metastorici, che l'hanno bellamente strappato dal ·contesto culturale e storico (come si diceva una volta) in cui è nato e vissuto? A questi dubbi metodologici si può rispondere, almeno in prima battuta, con La persuasione e la rettorica, che è appunto l'opera.a cui Michelstaedter ha affidato, consapevolmente, il senso ultimo della sua ricerca. Ora, mi sembra che questo testo documenti un pensiero tutt'altro che debole o indeterminato, e che anzi riveli una speculazione forte, prometeicamente apodittica, fondata su un nucleo ristretto di opposizioni invarianti. L'umanità, dice l'autore, vive in una condizione di perenne, "diuturna" insoddisfazione e deficienz:li. La vita non ha valore in sé, ma riceve senso da un'affezione verso il futuro, che distrae Hsoggetto con la propria promessa di piacere e di appagamento. È, questo, il dio della filopsuchia, dell'inadeguato amore per l'esistenza, che risucclùa bisogni e desideri dell'uomo, e lo rende sclùavo di un circolo vizioso indefinito e doloroso. La vita priva di persuasione è simile a quella del "peso" che "pende e dipende", e che, condizionato dalla propria natura di peso, è
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