IL CONTESTO be che i bambini sono tutt'altro che impermeabili e impenetrabili; si potrebbe anzi dire che siano in generale piuttosto spalancati e spugnosi, pronti a lasciarsi riempire e impregnare - con ingordigia, anche, avidi di tutto. per le "rivelazioni" è un tempo in cui la luna è nella fase giusta. E dopo, è dopo aver avuto che rigettano, che espellono il superfluo e il flaccido, l'infonne; è dopo che lasciano cadere le aperture, che la spugna rinsecchisce e s'aggrinza. "Vivere è una faccenda molto pericolosa", dice ripetutamente il narratore di Grande sertao di Guimaràes Rosa; e lo si scopre tutti, e non solo per gli inevitabili inciampi nelle insidie, nei trappoloni biologici e storici, più e più volte. Anche i bambini. Malattie, sbucciature, ferite, schiaffi, sgridate, maniglie irraggiungibili, silenzi; e poi il buio, la pioggia, l'arrivo di un fratello che si ruba la mamma, e la biglia caduta nella grata, l'amico che non viene, le figurine perse, la paura, le strade impraticabili, minacce di vicini, amici che ti "staccano la pace", parole inascoltate, solitudini, complicità negate. La congiura di natura e cultura comincia molto presto e non si ferma più. E non c'è solo questo. Anche il "bene", il gioioso del vivere, il "pieno" del sentire e del godere, contiene i suoi bei rischi, le sue insidie: l'immane difficoltà di capire e sapere come vivere. Dal ripetuto, insistito richiamo sull'imparare a vivere, non è difficile essere storditi e sentirsi spossati; si cerca allora un'ombra, ci si mette a sedere, e si sente più nulla. Spesso, quando un bambino piccolo cade, succede che da terra guardi verso la madre restando un po' come in sospensione, quasi a cercare in lei qualche indizio - di serenità.o di ansia - sul quale modulare il proprio andare oltre oppure soffermarsi, la ripresa o lo sfogo, qualchç spia che indichi se è il caso di chiedere attenzione e conforto. E dopo questa esplorazione che decide di rialzarsi e riprendere il gioco, la corsa, oppure di piangere per chiedere così alla madre di andare ad aiutarlo. Molte volte, per fargli riprendere forza e fiducia, è sufficiente uno sguardo, qualche parola quieta, un fiato di rassicurazione; per avere efficacia, però, sguardo parola e fiato devono essere mossi, non dati una volta per sempre e ripetentisi in un manifestarsi prevedibile quanto lontano. Soprattutto devono essere come modellati sulla situazione - non sulla condizione generalissima e quindi astratta di "bambino caduto", bensì su quella lì, di quel momento-e in questo modellarsi alla situazione di un bambino specifico è necessa0 rio che si metta nel conto anche l'eventuale inespresso, desiderio o paura che sia. Insomma, quel che conta è che sguardo parola e fiato siano dentro la vicenda, appartenenti davvero al rapportodi quel momento- .trail bambino e la madre, tra bisogno e risposta al bisogno, tra disponibilità e disponibilità, tra sfida e abbandono. I bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche antenne, e possono anche essere prodigiose, che usano per captare e filtrare, fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno. E 18 se il bambino piccolo caduto osserva e spesso agisce proprio in conseguenza di quello che ha potuto captare con gli occhi e con le antenne, il bambino più grande non è che sia da meno - le antenne si perdono più tardi, quando ci si comincia a ritenere "grandi". È in tutto il tempo dell'infanzia che le antenne funzionano, e questa è una delle peculiarità; una tra le preziose, perché consente di fare un pieno ben denso di memoria, dotarsi di uno scrigno cui attingere poi anche in futuro. Ma qualora il captabile altro non sia che il calcolo meschino, l'indifferenza cieca e preventiva, il trascinarsi snervato tra malumori muti e strilli isterici, l'attingere allo scrigno sarà poi solo una pena rinnovata, e sarà ingurgitata magari contrabbandandosela come beatitudine. Dice un bambino di una delle Stòrie di Rilke: "E i nostri genitori, come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno coi visi arcigni e imbronciati. Nulla va lombene. Urlano. Strapazzano. E, nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a tutto." Indifferenti a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti genitori; per esempio nelle scuole, d'ogni ordine egrado, insegnanti così ce n'è quanti si vuole. E questo è un dato piuttosto disperante, perché quello dell'insegnante è un mestiere che offre molti spazi per le "rivelazioni" -e questo non ha nulla a che fare con la "missione", ha molto a che fare invece con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che hanno voglia di vivere davvero e lo dicono forte tutti i giorni. A questo riguardo c'è invece molta reticenza. Ragioni, e responsabilità, ce ne sono diverse: dello Stato, del sindacato, dell'istituzione, della categoria, delle persone: tagli economici, formazione inesistente, stipendi sconfortanti, boicottaggi moqùi e professionali, parole vuote, dolori privati, burocrazia mortale, ingerenze concordatarie, mentalità meschine, frustrazioni sistematiche, opportunismi, campagne elettorali, falsi nemici, bambini di plastica, misconoscimenti, latitanza dell'inventiva, "sociale" asociale, assenza di progetti, genitori miasmatici, pavidità di generi svariati ... Già questo non è poco, e non è tutto. E certo, pur non essendo tutto, è più che sufficiente a scoraggiare; ma siamo qui, e questo essere qui dovrà pur darsi un senso, sennò sarà insensato anche il fatto di esserci. E allora direi che qualcosa si potrebbe cercare di farla fin da subito: oltre che respirare sul collo di qualunque ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi una piattaforma- nel senso sindacale e nel senso dello spazio da cui spiccare il volo -; una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare donchisciottescamente, che si ricava dal Gennariello di Pasolini: "negli insegnamenti che ti impartirò( ...) io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci". Non sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente, "per l'educazione, contro l'istruzione"; voglio solo dire che il "bambino cognitivo" rischia di non essere altro che un nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non è il caso, abbiamo già dato. Istruzione ce rie vuole tanta, ai bambini è giusto far apprendere molto, e facendolo si risponde positivamente a un loro bisogno, a una loro richiesta; ma è necessario assumerli interi, perché possano cominciare ad essere sapienti e non saccenti, perché possano cominciare ad essere artefici appassionati del proprio stare nel vasto mondo e non artifici appassiti ancor prima di fiorire, perché possano capire e sentire il proprio sentire e il proprio capire, perché possano cominciare a capire e sentire che il proprio sapere può portare non soltanto a consentire ma anche a divergere. Però, ancora una volta, come il bambino piccolo caduto, i bambini si guardano attorno. Si guardano attorno e imparano, dai loro modelli. E possono imparare che si può ascoltare; che si può parlare; che si può leggere; che si può scrivere; che si possono
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