Linea d'ombra - anno VII - n. 43 - novembre 1989

ILCONTESTO Una specie di fiaba ... Il nuovo feticcio del ''bambino cognitivo" Giuseppe Pontremoli Ormai si chiude, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e di mode, di fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari a loro tempo sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle migliori, sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più d'una, ma qui voglio dirne una sola. Proprio nel 1900, quando nasceva il secolo, Rilke scriveva le Storiedel buonDio (ripubblicate ora nella TEA, nella traduzione di Vincenzo Errante e con una bella introduzione di Fabrizia Ramondino), e in una aveva messo un maestro che "diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso: 'Io non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini. Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere la loro fantasia con simili mirabolanti invenzioni. Si tratta d'una specie di fiaba ... ' " Questo nel 1900. Oggi, quando il secolo chiude, è ancora così. Largamente. Certo, con vari distinguo e varie eccezioni, però largamente così. Tra i tanti di oggi che sono così alcuni lo sono per perfidia e paura; altri invece lo sono con un bell'animo lieto tutto impregnato dell'ultimo culto - ch'è un modo comunque di avere paura. Da riviste, convegni, università, IRRSAE, case editrici, sedi di partito, sindacati, si strilla con concitazione: "Basta con l'educazione! Primato dell'istruzione! Viva il bambino cognitivo!". Qualcuno è solamente in buona fede, giusto perché s'è accorto che i vecchi programmi della scuola elementare parlavano di qualcosa che proprio non esiste: il bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento. Altri in fede non altrettanto buona. A mancare è invece chi abbia ilcoraggio di dire che si tratta d'un altro prodotto del fertile ventre dell'impero, eppure non so"nopochi coloro che dovrebbero sapere - ma forse aveva davvero ragione Pasolini nel suo Gennariello (in Lettere luterane, Einaudi, 1976) quando parlava della "invincibile ansia di conformismo". Il segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento: schematizzazione riduttiva, nel migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque. Ma i bambini, per loro fortuna- e per quella di tutti - sono un po' più variegati, e dentro questi schemi non ci stanno. Forse ci sta il Bambino, ma i bambini veri no, perché sono fatti anche di fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni. E tutti in misura diversa, perché intervengono in loro-così è per tutti-mille cose. E ci sono quindi bambini ricchi e bambini poveri; bambini assediati e bambini abbandonati; quelli che hanno la colf e quelli che hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei fratelli, altri dei televisori, altri fame, altri la puzza sollo il naso. E così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici, saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti, affettuosi, spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi, appassionati, silenziosi, cocciuti, parolai, simpatici ... - ognuno può proseguire, basta guardarsi intorno. La rivendicazione "tecnicistica" a me pare una spia significativa d'una crisi e di un vuoto; ma la necessità di fare fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercar di coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio - il meglio di sé, della propria stqria. E quindi innanzitutto con le proprie passioni e le proprie storie. Succede invece che, in assenza di un progetto sociale ed esistenziale, si mettano pezze, e magari anche di raffinata eleganza, di suggestiva forbitezza, scientificamente(?) fondate. Allettanti, quindi, ma pezze, nient'altro che pezze; che puzzano, in ogni caso, d'ansia di conformismo, d'ansia di potere e consenso. Nelle Storiedel buonDio la "dimensione pedagogica" è insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista Ellen Key; contengono diversi bambini; riferiscono a più riprese del fatto che i bambini quelle stesse storie le hanno risapute, trasmesse, capite, apprezzate, cambiate, amate, vissute; avevano come sottotitolo "Ai grandi perché le raccontino ai bambini". FabriziaRamondino, nell'introduzione, interrogandosi sul senso di quel sottotitolo, scrive: "Alla luce anche delle numerose critiche di Rilke alla scuola e al: la pedagogia del suo tempo (e, a mio avviso, del nostro), io lo intendo così: solo i grandi che hanno mantenuta viva in sé la rivelazione di Dio, che come tutti i bambini hanno ricevuto nell 'infanzia, anche se non sapevano che era lui, saranno in grado di raccontare storie ai bambini, cioè di aiutarli a crescere; e mantenere viva in sé questa rivelazione altro non significa che disseppellire il bambino che è in loro." Raccontarestorie ai bambini,cioèaiutarlia crescere, aiutarli a imparare a vivere - e che raccontare sia essenziale per vivere lo si impara per esempio anche da Shahrazàd, che, per mille e una notte, salva la propria vita raccontando. Vivere, crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adagiarsi all'esserci consentendo comunque. Vivere e crescere - cambiare, quindi; magari guardando e prendendo in mano il Qui, per progettare un Altrove che non si trovi altrove ma sia qui, che sia il Qui trasformato. Allora però è necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno, che muova ed accompagni - che perseguiti, forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all'arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore, dolore, Dio - ognuno ha la propria storia-; non è il nome che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore. Si oscilla spesso- maestri, genitori - tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi che, in un'orgia di diminutivi e leziosaggini, bamboleggiano tristamente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso "mondo dell'infanzia" intollerabilmente falso; dall'altra sta l' armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé - un sé imperiale, invasore, cui l 'altrÒdeve solo assoggettarsi. Eppure l'infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e dovrebbe essere considerata come tale. E si dovrebbe acquisire come qualcosa ben provvista di senso quella che solo apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini. Questo, però, avviene soltanto raramente: tra i due blocchi valoriali e comportamentali costituiti da pigrizia-cinismo-razzismo da una parte e conoscenza-solidarietà-apertura dall'altra, è oggi sempre il primo a prevalere. Eppure, davvero, i bambini sono bambini e nient'altro. Non sono adulti; non sono piccoli adulti; sono solo (solo?) esseri umani che percorrono un tempo specifico del loro essere, camminando camminando, esseri umani. E questo loro tempo specifico è un tempo in cui i confini tra quel che si vuole e quel che si respinge sono davvero netti, e maggiori che in ogni altro tempo sono la permeabilità e la disponibilità, grandi almeno quanto lo è la severità nel giudicare. Chi fosse disposto a accantonare pregiudizi, cecità e intenti colonialistici vedreb17

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