Linea d'ombra - anno VII - n. 42 - ottobre 1989

me la "catastrofe del comunismo storico" non significasse affatto di per sé la vittoria della democrazia liberale - lasciando irrisolta l'immensa, lacerante contraddizione dei tempi nostri, cioè quella fraNord e Sud del mondo, e lasciando quindi del tutto aperti i problemi su cui si era infranta la sfida comunista; e la riflessione tutta autobiografica di Rossanda sulla difficoltà di essere comunisti oggi. È un testo rivelatore, quest'ultimo. Alcune sue "cadute" ·narcisistiche, infatti, a mio parere non possono essere considerate un semplice problema di stile, un incidente letterario. Riflettono al contrario una sostanziale indisponibilità alla revisione critica del proprio percorso intellettuale, sicché diviene inevitabile ricorrere a una lettura di tipo estetico prima ancora che politico di unitinerario. Al punto che se dovessi scegliere una frase-chiave di quello scritto, indicherei questa: "Era bello essere giovani, povere, colte e comuniste, guardate con sospetto". Tutto lo sforzo pare rivolto cioè a rivendicare la propria personale coerenza, e la propria coscienza pulita, anziché a riflettere sui disastri che caratterizzano la vicenda del movimento comunista. La tesi di fondo, anche se mai esplicitata, pare essere la seguente: nonostante Stalin, nonostante la struttura antidemocratica del Pci, chiunque in Italia volesse schierarsi efficacemente dalla parte degli oppressi e della trasformazione sociale non poteva fare altro che stare con quel partito comunista, col partito comunista di Togliatti. Stare dalla parte giusta, inevitabilmente comportava anche sopportare le infamie dei regimi dell'est, l'invasione dell 'Ungheria, l'integralismo della cultura comunista. Eccetera eccetera. "Noi però eravamo nati nel tempo giusto e nel posto giusto, eravamo fuori dal peggio." ... "Il bisogno delle mani pulite è una ingenuità dei comunisti - gli altri neanche fingevano di averle, né si addossavano per questo tutte le colpe." Che dire, allora, di quelli che non ci stavano, e lasciavano il Pci? Troppe "miserande crisi d'anima" si risolvevano "perlopiù in un mucchietto di posti, incarichi, soldi". Il mantenimento, invece, di un rapporto con la base operaia e popolare del Pci, bastava a giustificare sul piano etico una scelta di schieramento. Chi non ci stava, quando non era un traditore, si limitava comunque a un ruolo di testimonianza impotente. È, questo, uno schema in base al quale finisce per trovare spiegazione se non il disprezzo quanto meno il disconoscimento nei confronti di tanti nobili percorsi intellettuali che a quel ricatto - stare con Togliatti per stare contro i padroni - non si piegarono. Senza per questo rinunciare a una propria identità rivoluzionaria o comunque di oppositori. Sia che si trattasse di figure estranee alla tradizione comunista (Raniero Panzieri, Aldo Capitini, Franco Antonicelli), sia che vi fossero interni (Umberto Terracini). Alla fine lo schema di Rossanda porta a sostenere che non si può essere anticapitalisti se non si è comunisti, se non si fa propria la concezione prima leninista e poi togliattiana della politica e del rapporto fra partito e masse. Sorvolando, fra l'altro, su quale fosse l'effettivo grado d'impegno anticapitalistico di Togliatti, e di che natura, invece, la sua costante attenzione al rapporto con la Dc. Si spiega così in termini puramente accidentali la stessa fuoriuscita del gruppo del "Manifesto" dal Pci. Che se ottusamente il vertice comunista non li avesse buttati fuori nel '69, è improbabile che quelli del "Manifesto" se ne sarebbero andati con le loro gambe. Lo lascia intendere la stessaRossanda in un articolo del 23 agosto scritto in polemica con i liquidatori di Togliatti: "Consideriamo una sorte fortunata che il Pci ci abbia allora liberati di sé. Questo fa di noi gente che può guardare, senza stracciarsi le vesti, al passato e al presente". IL CONTESTO Rossana Rossanda in una foto di Giovanni Giovannetti (G. Neri). Naturalmente sarebbe di per sé ozioso denunciare l 'appartenenza di un gruppo di intellettuali a una tradizione culturale, solo perché essa ci è estranea e l'abbiamo sempre criticata. Ma il fatto è che quella tradizione viene enfatizzata fino ad attribuirle caratteristiche omnicomprensive inaccettabili, come vedremo. Si nega infatti, e Rossanda lo ha fatto con un maggior rigore teorico su "Democrazia e diritto" - in uno scritto critico riguardo alla scelta del Pci di far propria la posizione di principio nonviolenta-che possa darsi oggi al di fuori della tradizione comunista altro che una:visione residuale del conflitto. La rimessa in discussione della concezione leninista della violenza, comporterebbe automaticamente-e davvero non si capisce il perchéla caduta dell'ipotesi conflittuale, ovvero - alla fin fine - l'acquiescenza allo stato di cose presenti. Tale affermazione, che comporta una netta presa di distanze teorica dalle forme di conflitto caratterizzanti i nuovi movimenti, dal femminismo all'ecologismo fino alla stessa lotta per l'affermazione dei diritti di cittadinanza, si fonda necessariamente su di una lettura che più sopra ho definito omnicomprensiva della tradizione comunista nel nostro paese. Non solo, ripensando agli anni Cinquanta, si dà per necessitata e inevitabile la scelta di campo compiuta allora. Ma rileggendo i decenni successi vi si assegna al Pci una funzione che non ha avuto affatto. Rossanda allude a una sintonia, se non addirittura a una consustanzialità, fra la politica del Pci e il dispiegarsi dei nuovi movimenti, che non trova riscontro nella realtà. Davvero mi pare innegabile che i conflitti e i movimenti degli anni Sessanta costituirono- in termini di connotazioni sociali, culture, linguaggi, modalità organizzative, obiettivi, dinamiche conflittuali - una drastica rottura con il togliattismo e la tradizione comunista. Non è sufficiente l'obiezione secondo cui tali movimenti avrebbero comunque prodotto l'effetto politico di rafforzare il Pci sul piano elettorale, organizzativo, di potere, di egemonia culturale. Questo è vero, ma non si spiega la successiva rottura, la prolungata incomunicabilità fra Pci e giovani, la sclerosi del movimento sindacale, senza riconoscere che il Pci fu un contenitore del tutto strumentale e provvisorio di quei movimenti, essendo la sua cultura fondamentalmente estranea a essi. Datare solo gli anni della "solidarietà nazionale", cioè alla seconda metà dei Settanta, la rottura del Pci con i movimenti e l' in5

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