Linea d'ombra - anno VII - n. 42 - ottobre 1989

CINEMA dichiarava a gran voce di amare registi e film che fino a qualche anno prima erano esclusi da qualsiasi tipo di amore. E che di questo atteggiamento non si vergognava più. Era un atteggiamento soprattutto passionale, che richiedeva schieramenti e barricate, che divideva in amici e nemici, ma che sopra ogni cosa coinvolgeva l'universo dei sentimenti: allora si parlava di sorprese e entusiasmi, delusioni e innamoramenti, amori e tradimenti. E non bisogna dimenticare che quelli erano anche anni in cui sembrava che tutto, o quasi, passasse attraverso la sala buia, e che forse un carrello be·nfatto non era necessariamente l'equivalente di una scelta di campo progressista, ma poco ci mancava, perché il cinema era diventato il mezzo privilegiato attraverso cui osservare (e spesso anche analizzare) la realtà sociale. Da allora molte cose sono cambiate, ma per il discorso che qui interessa sono soprattutto due i fenomeni da mettere in evidenza, uniti da un filo sotterraneo che si è andato sempre più annodando e ingrossando. Da una parte i protagonisti professionali del cinema hanno imparato a fare loro per primi il discorso critico, ottenendo in questo modo di orientare in anticipo la propria fortuna critica, e favorire così anche il successo commerciale. Un 'operazione che è stata aperta da quei registi-autori che vedevano finalmente nel colloquio-intervista il modo di spiegare e di spiegarsi, ma che subito è stata cavalcata da quasi tutti i registi e soprattutto dai più avvertiti tra gli attachés de presse, capaci di presentare al fruitore del film un apparato critico (o presunto tale) così ingombrante da mettere in soggezione chi non fosse stato capace di ritrovare nel film tutte quelle sottigliezze, tutti quei riferimenti, tutto quello sfavillare d'intelligenza. Una tendenza questa che si è trovata subito in sintonia con l'esigenza dell'industria cinematografica (specie americana) di creare grande attesa, in un momento dato, di fronte al prodotto cinematografico. E in anni in cui l'appeal dei divi sembrava declinare, una consacrazione ad "autore" o un appoggio critico non poteva che far bene. (Notare, tra l'altro, come proprio durante gli anni Settanta si vada sempre più affievolendo la dicotomia pubblico-critica, a favore di un unicum dove il successo al botteghino trova una sua ragione d'essere anche nell'appoggio critico.) È un processo che passa attraverso alcuni momenti forti e che ha nel lancio di Apocalypse Now il suo punto più alto, proprio perché più limpido e indiscutibile. Con lui e dietro a lui verranno i Cimino e i Lucas, gli Spielberg e iPutnam, dove i confini tra film e discorso-sul-film, così come quelli tra registi e produttori si andranno sempre più affievolendo. E di fronte agli occhi chiusi di certa critica ufficiale (parlo soprattutto dell'Italia e dei suoi quotidianisti), fu facile rivendicare qualità stilistiche e discorsi personali a film che forse avevano ben altre caratteristiche salienti. Ma davanti alla marea montante di cinefilia certe stroncature (ricordate la polemica sui trash movies?) ottenevano il risultato di far vedere tutto rosso. Dimenticando che esistevano anche altri colori. Due casi estremi, amo' d'esempio. Il primo è il successo quasi postumo di Rocky Horror Pie ture Show che ha sempre interessato più i sociologi che i critici, quasi che la vita notturna di questo film (ignorato alla sua uscita, divenne un oggetto di culto, e buon incasso al botteghino, solo quando venne casualmente ripreso per i programmi di mezzanotte del weekend newyorkese, rimanendo in cartellone per anni, in Usa come in Italia) non ponesse problemi critici. Invece se rilette oggi le recensioni sufficienti di allora dimostrano, in negativo, come spesso l'oggetto della critica non è il film ma quello che lo circonda: l'attesa, l'indiscrezione, il look, ii lavoro dei pi-erre, persino l'età e lo stato d'animo del recensore. E soprattutto, ci si rende conto di come certi atteggiamenti critici assomigliano ali' atteggiamento di quegli esploratori che entrano nella foresta per scoprire chissà che cosa, men64 tre invece Rocky Horror sembra costruito apposta per essere riempito dallo spettatore, non svuotato dal critico di "valori" e "contenuti". Il film di Jim Sharman è un sogno (sulla liberazione sessuale) non un discorso o una minaccia. E infatti il regista sembra essersi preoccupato soprattutto di costruire il film per opposti, attraverso cui lo spettatore possa attivare una personalissima circolazione di significati: maschio e femmina, America e Inghilterra che poi sono nuovo e vecchio, nostalgia e fantascienza, eterosessualità e omosessualità, in modo che ognuno ci metta del suo. Un'operazione che moltissimi spettatori hanno capito, ma che solo pochissimi critici hanno scoperto, proprio perché il livello critico di quel film non era omologo con il discorso critico più generale che si respirava in quegli anni. L'altro esempio, un po' estremo anche lui, è il successo quasi prenatale che certi registi decretano alla propria opera. Non parlo naturalmente di successo commerciale, ma di successo critico, che però, come la cronaca insegna, è praticamente necessario per il buon esito di un film al botteghino. L'ultimissimo esempio è la campagna che sta accompagnando l'uscita sugli schermi del film di James Cameron The Abyss. Appena uscito negli Stati Uniti, il film si merita unà pagina intera anche su Repubblica con tre o quattro mesi almeno di anticipo sulla sua uscita in Italia. E l'intervista diventa quasi subito una specie di vademecum critico a futura memoria dove il regista spiega ("se leggi il mio film come una rappresentazione del mondo intero ..."), lancia messaggi ("il personaggio principale invece di essere un eroe d'azione, cerca sempre di trovare una soluzione pacifica. E solo quando fallisce è costretto a prendere una via più violenta ..."), o addirittura mette sul chi va là il futuro critico perché non ripeta errori già fatti ("Sigoumey Weaver in Aliens era molto forte e diretta, ma tanti l'hanno vista come una sorta di Rambo femminile, mancando secondo me il senso che cercavo di darle ..."). A questo punto, altro che considerare il critico come un esploratore, meglio dirgli subito che la sua.sarà una specie di caccia al tesoro, dove i rischi saranno molto più pericolosi di quelli che corre Indiana Jones nelle sue avventure: invece che la vita (che per un eroe è sempre una minima cosa) potrà rimetterci la legittimazione al suoruolo (che per un critico è molto più importante dell'aria che respira). E il fatto che questa intervista (come moltissime altre) sia uscita su un quotidiano ci porta all'altro, fondamentale cambiamento nel panorama di questi anni: il discorso critico, quello che conta, che viene letto, che incide sulla vita di un film, è quello che si fa sui quotidiani nazionali, anzi sui quei cinque o sei quotidiani che contano e su un paio, forse tre, settimanali. Il resto è fuori gioco. Perché si sia arrivati a questo ·non è difficile da spiegare, ci entrano ragioni economiche (quelle che negli altri paesi sono i veicoli del discorso critico, le riviste di cinema, in Italia non hanno mai avuto la forza di imporsi sul mercato della carta stampata), strategiche (le persone che forse potevano avere l'autorità per supportare un discorso critico hanno scelto strade diverse dalla critica scritta), massmediologiche (la riduzione dei tempi che intercorrono tra la fruizione di un film e il bisogno o la voglia di leggerne una interpretazione critica hanno messo pian piano fuori gioco tutte quelle pubblicazioni che non riuscivano a tenere il ritmo del consumo cinematografico), anche intellettuali (con qualche rarissima eccezione, la critica cosiddetta militante, quella che si fa sulle riviste, è di scarso interesse e minimo spessore). Fatto sta che in Italia, e solo in Italilt (in Francia e in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e inUnione Sovietica non è certo così) quando si parla oggi di critica cinematografica ci si riferisce a quei cinque o sei quotidiani e a quei due o tre settimanali. Il resto, più che vita, è quasi morte. Questi due elementi, poi, hanno trovato un terreno fertilissi-

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