Linea d'ombra - anno VII - n. 42 - ottobre 1989

1. Per salvarlo dall'alcool, il governo marxista del Bengala arrivò amettergli accanto una guardia del corpo con l'incarico di tenerlo lontano dalle bottiglie. Inutilmente. Quando Rit~_ikGha~ak, nel 1976, morì alcolizzato poco pm _checmquantenne, era una specie di mito naz~o~al~,ma soprattutto rappresentava il punt? d1nfenm~nto ideale perunanuov a e agguerrita generazione di cineasti indiani (Mani Kaul, Kumar Shahani, fohn Abra!iam ecc.). Un gruppo di autori che riconosceva in lui, nel suo modo di porsi nei confronti dell'arte e della realtà del suo paese, un modello alternativo non solo rispetto all'universo magmatico e devastato della produzione commerciale indiana (più di 900 film ali' armo, tre volte la produzione americana, in cui però la stragrande maggiorariza è costitu_itadamu~ical dozzinali, drarnmoni strappalacrime, pelhcole regionali), ma anche nei confronti dell'altra figura carismatica del cinema nazionale, il più accade{llico e "legittimato" Satyajit Ray. Adorato dagli intellettuali e dagli all icvi ?el Film Institute of Cinema di Pune (dove ha msegnato regia a partire dal 1965), Ghatak è stato un autentico artista del popolo: durante i suoi fune:ali si verificarono gravi incidenti per la ressa d1una folla commossa e appassionata. Eppure, passano gli armi ma il ricordo di quest~ autore rischia di restare un fatto soprattutto mterno dell'India. Se non fosse per la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro che a Ghatak ha dedicato una "personale" abbastanza esauriente nel 1985 e un ulteriore omaggionell'edizionediquest'anno (2-11 giugno 1989), del grande regista bengalese si conoscerebbe ben poco. È indicativo che anche i "Ca!iiers du Cinema" abbiano recentemente pubblicato una serie di reportages di Charles T_ess_on_ \le cinema indien dans tous ses états), p1emd1mterviste e omaggi ad autori e produttori, di dati statistici ed economici, in cui non viene citato neppure una volta il nome di Ghatak. In qualche modo, a più di dieci anni dalla sua morte, Ghatak continua ad essere così quello che è sempre stato anche in vita, una speCINEMA IL BENGALA È LONTANO ILCINEMA DI RITWIKGHATAK PieroSpi/a cie di buco nero, affascinante e un po' minaccioso, in cui il cinema d'autore misura fino alle estreme conseguenze gli slanci ideali e iprogetti estremi, ambizione e impotenza. In realtà, i pur doverosi riconoscimenti internazionali della critica sono sempre stati l'ultima preoccupazione di Ghatak, un autore che ha rappresentato e continua a rappresentare tutt'ora una delle tante anomalie di una cinematografia ipertrofica e paradossale come quella indiana che fonda la sua potenza sui grandi numeri (i film prodotti all'anno, i dieci milioni di spettatori al giorno ecc.) ma anche sullo scarsissimo valore aggiunto creativo e artistico della produzione. Un cinema impraticabile in cui si intrecciano e convivono a fatica lingue, culture, religioni diverse (se uno spettatore cinematografico di Bombay volesse comprendere cosa dicono i protagonisti di un film di Satyajit Ray può solo affidarsi ai sottotitoli inglesi); un clima pieno di contraddizioni in cui si producono centinaia di film d'amore ma in cui la censura impedisce agli attori persino di baciarsi, in cui si producono centinaia di film che raccontano Ia distruzione fisica degli uomini, ma dove è vietato far vedere il consumo di droga e alcool. Eppure è proprio in questa realtà che Ghatak ha operato, ha girato i suoi film, ha narrato le sue storie che puntualmente parlavano d'amore e di uomini schiacciati dagli eventi, che si perdevano con l'alcool e ladroga, ha fatto film comici per divertire e melodrammi per commuovere, storia e autobiografia. Un modo di fare cinema così totalizzante e carismatico che per tutti i giovani registi indiani ha rappresentato un esempio da tenere in considerazione, anche se non certamente da imitare. E questa unicità del suo cinema (e anche il suo isolamento) appare evidente mettendo a confronto i film di Ghatak con quelli degli autori a lui più vicini. Tanto irruento, generoso, stilisticamente "aperto" e "popolare" è il cinema di Ghatak (ogni suo film è una scommessa estetica, una rimessa in gioco di quanto costruito fino allora a livello di linguaggio e rapporti espressivi), quanto controllato, meditato, culturalmente "alto" è il cinema dei suoi allievi: quasi diagrammi musicali i film di Kaul, astratti contrappunti geometrici le parabole etiche di Shahani e così via. Il rapporto maestro/allievi allora dov'è? Come tutti gli autentici maestri di cinema personalmente non riesco a pensare che a Re sellini), Ghatak non ha imposto un modello un'idea di cinema da seguire, ma ha mes: semmai in discussione il problema del cinen in quanto mezzo di espressione rispetto agli.: tri mezzi d'espressione, e dunque ha affront to la peculiarità del suo linguaggio, la necess. ria costruzione di un rapporto organico con realtà, il bisogno di una linea di comunicazic ne con il pubblico. Tutto questo al di fuori e qualsiasi garanzia di mercato, di qualsiasi a tenzioncperconvenienzeeopportunità. Un'ii transigenza che si paga, e non è un caso che R twik Ghatak non sia mai stato un autore corr merciaie ma neppure un autore da festival, che abbia fatto solo-otto film in più di venti an ni di carriera. 2. Di Ghatak uomo si sa poco. Di sicure aveva un carattere difficile, talvolta collerico era però dotato di un grande fascino persona!, e di un 'integrità morale a tutta prova. Detesta va il cinema di Bergman ("Tutto falso", dice va), ma adorava quello di Bufiuel. Di lui riman gono invece i suoi pochi film, quasi tutti eccezionali per l'apparente eterogeneità dello stile ma anche per la rigorosa coerenza nell'uso dei materiali espressivi: il suo cinema spazia dal documentario alla fiction, dal racconto picaresco all'apologo filosofico, dal gioco della commedia al dramma della miseria e della sopraffazione: da Chaplin a Tagore, da Brecht a Fellini. In Ajantrik (Il vagabondo, 1958) Ghatak narra la storia di un povero autista di provincia che, giorno e notte, con la sua vecchia Ford incontra un'incredibile umanità in uno scenario in cui residui tribali coesistono con la nuova civiltà che avanza; nel bellissimo Meghe dhaka tara (La stella coperta dietro una nuvola, 1960), una ragazza, da sola, lotta disperatamente contro ladissoluzione della propria famiglia; in Titash ekti nadir naam (Un fiume chiamato Titash, 1963) c'è la rappresentazione della difficile vita di una comunità di pescatori del Bengala orientale alle prese con un fiume che si prosciuga; fino ali' ultimo film della sua filmografia, autentica opera-testamento del suo cinema(e forse di un certo modo di "vivere" il cinema), Jukti, takko aar gappo (Ragionare, discutereechiacchierare, 1974), esasperato viaggio sull'orlo della follia, della sconfitta personale e, quindi, della morte, interpretato dallo stesso Ghatak che si ritaglia per sé alcune sequenze memorabili, come quella che conclude il film in cui il protagonista versa il contenuto della bottiglia di whisky sull'obiettivo della 61

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