TEATRO E allora- e ancora-dal punto di vista del modo e dell'ar- · te teatrale, c'è troppa ingenuità nel teatro "politico", si di~e, ovvero troppa im-mediatezza. Eppure a Villa El Salvador, una volta arrivati in prima fila davanti allo spettacolo, quel modo di mascherarsi e di agitarsi im-mediatamente non si riesce a rifiutarlo o a denigrarlo per davvero. Qualcosa che non c'entra con il gusto estetico o con il consenso politico e morale si impone con una strana, energica autorità. Balena un accostamento impensabile, addirittura proibito: quel tirare a riempire lo spazio muovendosi da tutte le parti, quel convincere senza commuovere puntando sull' evidenza della maschera, quel gesto scomposto che cerca di aumentarne il segno senza lavorare più sul disegno, può far scattare aprima vista un'associazione con i film o le immagini di qualche danza di possessione. E non è detto che le associazioni a prima vista non abbiano mai senso o peso. Non si può certo imputare agli attori alcuna utilizzazione o presunzione di ritualità: la motivazione e l'obiettivo di quegli at0 tori è il teatro, e magari il teatro politico. Ma l'energica richiesta di condivisione e comprensione va al di là dell'esigenza dell'arte e va contro l'astuzia della propaganda. L'enormità dello sforzo degli attori e la precarietà di un contesto di spettatori divertiti e riconoscenti offre una spiegazione un po' facile ma non banale: viene da pensare che si tratti di una "prima volta", si direbbe un'esperienza di teatro politico "in statu nasèenti". Ma è proprio "politico"? O quella ingenui~ e im-mediatezza partecipa di un'invenzione e di una necessità teatrale diversa? Sono le maschere yankees a essere state tradotte in spiriti maligni, o sono le modalità im-mediate e naives della rappresentazione del negativo, del crudele, del prepotente ad essere facilmente scelte per "animare" o recitare le figure stereotipe dell'imperialismo americano? La danza che le supporta e le muove non ha nulla di sacrale, semmai ha molto di casuale, eppure ricorda da vicino l'apparire e l'interagire dei nuovi e moderni Dei degli Hauka, se la citazione del film più classico - o solo più noto- dei Maitres fous di Jean Rouch non fosse fraintesa per un intervento da recensore. Nel rito di possessione il governatore inglese e la stessa locomotiva venivano evocati e magari esorcizzati nella trance: nella città giovane di Villa El Salvador invece, giovani attori impersonano una feroce statua della libertà per una finalità equivalente, perché si proceda a una corale e letterale "scomunica", e allora può darsi per questo con modalità somiglianti al "disordine" del rito, con una recitazione esagerata, in una sorta di danza scomposta. Così non si vuole certo esprimere la potenza del dio e del suo ingresso - attraverso il performer - nella "scena" rituale; e però si vuole comunicare.la prepotenza del personaggio e si sceglie una recitazione da invasato, per convincere il pubblico della necessità di sostenere, tutti insieme, la credibilità della scena teatrale perché diventi credibile anche il giudizio. Il parossismo dei gesti e delle voci ha certo lo scopo di fondare e amplificare la negatività di un personaggio, di una maschera: ma mentre si cerca di aizzare contro "il nemico" il pubblico, . è la stessa violenza diretta contro lo spettatore e richiesta come reazione, la stessa pretesa di danzare "per" lui che lo abitua o lo invoglia a riconoscere la necessità di tin teatro, del "suo" teatro. E infine diventa questo l' eff(;ttOprincipale dello spettacolo, tanto da pensare che è finalmente proprio questa la sua principale• preoccupazione e motivazione. Costruire il proprio pubblico è obiettivo di tutti gli attori, ma pensare di fare lo spettacolo "per" e "di" quel pubblico è ambizione di pochi teatri, e forse è soltanto la "prima" proposta. Ma può darsi che in questo "statu nascenti" il teatro si fermi per una lunga sosta (per convenienza o per impotenza, non sta a nessuno dirlo). Può darsi che un certo linguaggio e una certa metodologia si trovi a ripetersi e a giustificarsi proprio nella perpetua riproposizione di una sorta di "necessità originaria" di un teatro, che non è affatto vero sia sempre una cosa nobile e misteriosa, abbia sempre a che vedere con la Storia o con la Religione. Può darsi anche che risulti inaccettabile questa "stasi", agli occhi dello spettatore di un'arte teatrale sempre dinamica e sempre nuova. Eppure è un dato che ci sono gruppi di teatro - nelle "città giovani" -che nascono e muoiono in continuazione, appena in tempo per proporre la loro esperienza "prima", che è spesso quella legata a questa "prima" necessità di fare teatro; è un dato dunque che il pubblico delle "città giovani" si ritrovi a fare sempre i conti con quella che è la sua necessità "prima", di ridefinirsi nuovo spettatore di un nuovo teatro. E non serve affatto sottomettere tutto questo al giudizio del critico, sempre aderente al segno progressista di un piano di sviluppo. In questo senso invece, nel senso di questa primigenia necessità-che è una e la stessa, e però è più del pubblico che degli attori, più di vedere e di avere un teatro, che di farlo - ci può essere davvero un rapporto di analogia fra rito e teatro: non quello consueto o canonico di un rito che il teatro indovina o pretende alle proprie origini, ma appena il fatto di ritrovarsi incessantemente nella possibilità (o nella volontà) di una esperienza sempre originaria:sempre cioè in condizione obbligata (o liberamente costruita) di incontrare e dichiarare la propria "prima" necessità. Il possesso e il riconoscimento di un suo teatro, da parte del pubblico. Non ve ne sono di più alte. Non ve ne sono altre. Soprattutto se sono vere le parentesi di cui sopra, in cui si possono collocare e riconoscere quei pochi esempi di teatro alto e "altro" - cioè perfino europeo - che volutamente e ostinatamente lavorano sul piano e sul sogno dèlle origini del teatro: in modo più profondo e raffinato ma sempre dentro la basilare materia~ lità della relazione con lo spettatore. Meglio è allora dire non sulle "origini", ma sul processo originario del proprio teatro, sulla "originalità" di ciascuno spettacolo o evento prodotto e proposto: originale non nel senso dell'estrosità anche superficiale del cambiamento, non del nuovo ma del rinnovato, del ri-nascente. Ogni volta con l'ambizione dell'essere appunto "in vita", ogni volta con l'aspirazione di ritrovare e riprovare il legame con la sua necessità primitiva. Come tutte le "necessità" del teatro o dell'arte, anche e soprattutto la prima viene dunque da fuori, viene dal pul:?blico.Ma non in quanto gli spettatori la eleggono democraticamente o la rivendicano fra i bisogni e le libertà dei loro attuali o passati consumi. Piuttosto perché, anche se sentita e agita dal!' attore, non appartiene al bisogno di "fare", ma a quello di "vedere" teatro: e dentro quella "visione", non riguarda il suo "come" ma il suo "perché". Allora si può scoprire il legame fra il .teatro di un pueblo j uven e l'esperienza più complessa ed evoluta di gruppi più famosi e di maestri del teatro contemporaneo.C'è un momento- breve, per carità - e uno spazio:-- molto più grande, invece - in cui ci si può astenere dal giudizio e cogliere una relazione fra spettacoli e teatri di diversa classificazione e indubbiamente di distante classifica: quando si legge o si tocca l'intento di costituire o di suscitare un pubblico, che accetta come propria l'esigenza di appartenere al gioco e allo spazio di un teatro, che riconosce e attribuisce valore alla relazione fra sé e il "suo" teatro, portando nell'interazione le proprie domande di senso. E quello che sembra dichiararsi come il sostanziale bisogno dell'attore di "fare" teatro, scompare invece nel suo riflesso, nella pur occasionale necessità dello spettatore di "vedere''. Dal suo 55
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==