TEATRO tante volte si è detto "politico", ma altrettante volte forse senza ragione. Voler scoprire, sostenere, far rivivere e infine ritradurre in nuovo, giovane e vincente "teatro", l'insieme delle tradizioni, dell'etnos e dell'ethos, di una comunità, di un popolo, di una poblaciòn. Per essere precisi quella parte di rappresentazioni ed espressioni rituali che sembrano dichiarare e innalzare l'identità della comunità, e, dentro di essa, i segni e i significati più propri e più "altri", più emarginati e dunque più contestativi: talvolta gli ultimi rami scambiati per le prime radici. Per essere generici quei momenti di vita comunitaria dove il teatro sembra comporsi e insieme dissolversi, dove il suo apparire e sparire parla di una mancanza effettiva di necessità, e ne parla giustamente come superamento della necessità: si tratta infatti dei momenti di "festa". La festa quasi dappertutto sopravvive anche a se stessa, nel senso che è davvero improbabile che sia ancora organizzata e vissuta come un fatto rituale: contaminazioni e adattamenti alle acculturazioni e ai mutamenti della società quasi sempre e quasi ovunque hanno minato le sue fondamenta. Non sono molto importanti le modifiche del resto dell'edificio: si tratta anzi spesso di reazioni difensive e vitali. Mentre perde la ritualità sembra per forza guadagnare in teatralità, ma è per davvero e per eccellenza da sempre il luogo del teatro sufficiente, anzi di una sufficienza teatrale che fa a meno del teatro. Il giovane gruppo teatrale insegue le situazioni di festa, sono quelle il fine e il senso del suo spettacolo: vi è naturalmente attratto e si avvicina fino a bruciarsi dentro. Magari il giorno dopo, in uno spazio più riservato e cercando una maggiore concentrazione, propone frammenti di animazione usando gli oggetti e i linguaggi della tradizione. Con quelli confida di raggiungére le altre e più mature sintassi del teatro, così come alle maschere del carnevale e della magia viene da aggiungere altre più lontane eppure sempre vicine masch~re d'arte. Della Commedia dell'Arte, perché no? E tutto questo non per la sola ingenua ricerca dell'affinità, per la gioiosa scoperta di un terreno e cioè di un pubblico apparentemente ottimale, cui regalare - a difesa dall'emarginazione e dalla subalternità - il conforto di tutte le maschere del mondo. (E l'alleanza del Teatro, personaggio di un certo prestigio e di una certa rinomanza nella Cultura che li sta invadendo e mutando.) C'è anche un motivo più grave, la consapevolezza della crisi e del degrado di quel mondo, e di quella stessa "festa" che la gente sta, come ignara, vivendo. Ma, appunto, da un lato l'aggiunta del teatro è tanto benvenuta quanto poco compatibile: è per davvero la festa un "teatro" del · tutto "sufficiente". E dall'altro la riproposizione e traduzione del mondo della tradizione dentro un intervento-spettacolo è una preoccupazione tanto fondata quanto prematura. Il giorno prima o pochi giorni dopo la fiesta saprà dimostrarsi vivente, ed anche vitale per quanto riuscirà ad alimentarsi della sua stessa crisi. Non sarebbe grave, perché tanti teatri senza una vera "necessità" guadagnano da sopravvivere e si fabbricano un senso. Ma non quel teatro che sulla scommessa di questa necessità ha fondato la propria poetica e la propria motivazione. Non quel teatro che insegue il suo spazio nei luoghi e nei tempi di festa, i meno propizi per cercare o parlare df una qualunque "necessità". A pensarci bene anche da noi diverse sono le storie e le vite teatrali terminate sull'impossibile equilibrio di edificare una cultura di necessità e di abitare la festa. Ma naturalmente la contraddizione dura poco in una società benevola e del benessere. La "festa" finisce sempre per vincere. E convincere tutti. • Dentro la necessità Villa El Salvador è un quartiere alla periferia di Lima. Detto così si può equivocare almeno in due modi: si possono immagi54 nare i casermoni dell'edilizia popolare via via promossi fino al ridente sobborgo di villette middle-class, seguendo l'uso del "normale" vocabolario urbanistico delle società avanzate; oppure più realisticamente si può pensare all'ennesima area di insediamento spontaneo di "favelas". Ma non è nemmeno così (e tantomeno colà), nonostante l'apparenza, anzi l'evidenza. Forse non è per ironia e neppure per caso che a Lima i grandi agglomerati di favelas si chiamano "città giovani" (pueblos juvenes). Forse, dal momento che almeno Villa El Salvador è uno di quei "pueblos" che al loro nome vogliono credere. La gente, trecentomiia abitanti circa, ha deciso di intervenire con l'autogestione per provvedere per quanto è possibile alle proprie inappagate e inascoltate necessità; certamente soltanto ad alcune, a cominciare dal controllo e dalla prevenzione della criminalità, ai tentativi di mense collettive, agli interventi di animazione della vita quotidiana e culturale ... E la prima sorpresa è proprio quella di riscoprire l'uso e il senso positivo di parole così finemente specializzate e noiosamente consumate, altrove. Nel nostro "altrove". Evidentemente ci sono luoghi dove "animare" ha ancora un significato letterale: non cambia concretamente niente della miseria economica e della fatiscenza urbanistica, ma sviluppa un po' di ricchezza e di solidità sociale, sostiene l'anima di un pueblo, a cominciare dal nome, dalla sua identità. Villa El Salvador è un pueblo juven alla periferia di Lima. A Villa El Salvador, nonostante siano molti e altri i "veri" bisogni, qualcuno ha,deciso di "fingere" e ha organizzato un gruppo teatrale ... La corona di spine sopra la statua della libertà è fatta di aculei, proprio il contrario di quella di Cristo. Questo deve aver pensato anche l'attore, che irrigidito e imbiancato e drappeggiato da statua con tanto di fiaccola in mano, dà fuori minacciosi colpi di testa come un toro da corrida. · Saltando intorno, tutto e.ornae denti, grida contro il pubblico, e intanto un altro mena colpi di frusta, vestito un po' da aguzzino e un po' dacow boy. Un'idea puerilmenteagit-prop degli Stati Uniti:_ viene da giudicare-, e il grottesco diventa ridicolo, come se a un gruppo di animazione scolastica fosse concesso, per una volta, di fare paura ai bambini. Ma in un certo senso era quasi quello l'obiettivo. Una volta prese le distanze, ci si può accorgere che, al contrario, è il ridicolo che si va gonfiando in grottesco e che si tratta di "bambini" che hanno deciso di vincere la paura. Ma prese le distanze letteralmente, cioè calcolati per davvero i chilometri e le differenze che con compiacenza maggiore di quella yankees, il turista europeo preferisce ignorare. Soprattutto quando si tratta di Arte. Chè, se la cultura ce l'hanno tutti, l'Arte è soprattutto roba nostra. A seguire il testo o l'azione di un teatro così sfacciatamente "politico" viçne in mente un altro pensiero. O forse un altro giudizio. È facile, buttandola in politica, trovare la necessità del teatro: si è abituati a riconoscere e a deprezzare quel tipo di "necessità" per cui si sceglie il mezzo più povero eppure più diretto della comunicazione - dunque il più facile da capire e il più accessibile da fare-, e si mette a disposizione della volontà di propaganda di un punto di vista o di un partito qualunque. Ma così il senso starebbe nel messaggio, non nel "!Jledium" e, in questo caso nell'arte. La "necessità" arri va allora al teatro appiccicata su dal- !' esterno, misurata sul piano del consenso o al massimo del suo uso sociale, non sul piano del "come" si fa teatro, né su quello del come si dà nel sociale; tantomeno e 'entra allora con il "bisogno" o il desiderio dell'attore, con il "significato" o il successo dell'opera.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==