IL CONTESTO 14luglio Continua il seminario che comprende un lungo, emozionante (ed emozionato) intervento di Miklòs Harastyi, dissenziente ungherese. Egli esordisce ringraziando per l'opportunità che gli viene offerta dagli ospiti sovietici ma ricordando i dissenzienti che non hanno ancora avuto uguali opportunità e, soprattutto, quelli che hanno subito in passato diverso trattamento. Non a caso nel corso della discussione molti sottolineeranno l'importanza di offrire onorata sepoltura ai morti, con evidente riferimento a Imre Nagy: Anche i sovietici presenti concordanò. Tutto ciò mi offre il destro per ricordare l'elezione, negli anni Settanta, del grande storico marxista Eugene D. Genovese a presidente dell' American historical association. Un po' come Harastyi, anche Genovese nel suo discorso di ringraziamento aveva ricordato l'opera di altri storici marxisti americani che subirono le persecuzioni maccartiste in tempi meno tolleranti e che, in un certo senso, gli avevano preparato la strada. Qualche imbarazzo da parte di alcuni partecipanti americani al seminario. Harastyi, con voce che rivela tensione, porta avanti un ragionamento prudente ma fermo. Soprattutto, ribadisce il principio del non intervento ma chiede che esso sia ribadito con una ricusazione solenne della dottrina Breznev che costituisce una clausola non troppo segreta del patto di Varsavia di cui pure si limita a chiedere la riforma. La discussione chiarisce che l'Europa civile fa bene a "intervenire" con richieste di rispetto dei diritti umani, soprattutto in paesi come la Romania, anche se esclude interventi militari. 151uglio Durante una giornata turistica, ho occasione di parlare a lungo con il nostro ospite, Yuri Dubinin, esperto di Asia. Dubinin mi racconta che è stato a piazza Tian An Men due giorni prima della repressione su cui ha parole durissime, anche se rivela che la normalizzazione dei rapporti cino-sovietici era troppo recente perché si potesse ragionevolmente pretendere da Mosca una condanna esplicita di Deng. Rileva soprattutto l'austerità in cui vivono gli studenti cinesi - letti a castello con tre persone per stanza - e la loro estrazione sociale popolare: ragioni non secondarie della solidarietà della popolazione nei loro confronti. 16 luglio Prima di partire per Parigi pranzo a casa di Giulietto Chiesa, corrispondente stimatissimo de l'Unità, con Fiammetta Cucurria de la Repubblica. Chiesa osserva - e io concordo-, sulla base delle mie limitate esperienze - che il dibattito sulla democrazia che si svolge a Mosca è oggi il più libero del mondo. Le difficoltà sono immense: con gli scioperi siberiani è scoppiata la questione sociale, le nazionalità sono in subbuglio, c'è molto malcontento per la mancanza di pane e salame (o l'equivalente russo). Per fortuna manca una qualsiasi alternativa anche lontanamente concepibile al riformismo di Gorbaciov. Neanche il più vieto conservatore oserebbe chiedere il ritorno al breznevismo. Anch'io ho visto che i conservatori assomigliano a membri di una curia che si limitano a sperare che Gorbaciov sia soltanto un papa riformatore e che il concilio ecumenico Vaticano II smetta di essere in seduta. Soprattutto si ha l'impressione che sia in atto una ricerca di una nuova democrazia che ha fatto tabula rasa dei miti bolscevichi ma che non si accontenta di modelli occidentali di cui vuole discutere i limiti. Siamo disposti a partecipare? Abbiamo qualcosa da imparare, oltre che da insegnare? Siamo capaci di rinunciare all'inconfessabile speranza che l'impero sovietico torni nelle mani di un regime nemico? È questo il punto 12 LETTERE Nòmenklatura PCI GoffredoFofi Le" differenze" tra il PCI e gli altri partiti esistono, ma non sono soltanto quelle che gli altri partiti mettono in questione e il PCI difende. Una, considerata molto minore, ci ha sempre colpito, e vale per il vecchio gruppo dirigente togliattiano come per il nuovo postberlingueriano: non è tanto politica quanto sociologica ma, alla lunga, incide anche sulla politica. E se non se ne parla molto, è perchétra di noi-si ha paura di finire nel pettegolezzo, o perché, nel caso degli altripartiti, èconsideratoprobabilmente un fenomeno secondario e comune rispetto ad altri maggiori. Ci riferiamo al "familismo" del PCI, che, come nella generale tradizione del familismo italiano, è sociologicamente "amorale" (stante la definizione ormai famosa dei sociologi anni Cinquanta sul sistemameridionale).Inessovedo un pericolo, in quanto corrisponde a una tradizione e a un contesto, e inniente se ne differenzia, anzi accentuandone i caratteri. Il "familismo amorale" nasce come difesa di gruppo di fronte a un ambiente ostile; in quanto tale ha le sue ragioni, perlomeno storiche ed economiche, quando a farneunmodello di vita sono i ceti subalterni, poveri, indifesi di fronte ai forti e allo stato. Oggi esso si affianca o accoppia volentieri con corporazioni, sindacati, lobbies, partiti, mafie, camorre; in genere come dato trasversale, non unico. Nel caso della dirigenza comunista mi pare che esso dipenda da una peculiare "ragione" poco studiata. Partito d'opposizione, il PCI ha costruito la sua rete di clientes, come gli altri partiti dominanti, là dove ha gestito unpotere, per esempio nel caso delle tre regioni "rosse", differenziandosi da altri modelli di potere soloper la accentuazione di una pervadente ramificazione e intermediazione di apparati, tutti comunque "comunisti". Dove invecequestopoterenon l'ha gestito, il PCI si è fatto forte di unaretedifamu/i, piazzando, dove possibile, non rappresentati "locali" qualificati, ma semplicemente e puramente dei famigliari: mogli e mariti, figlie e figli (naturali, acquisiti, ufficiali e non ... ), fratelli e sorelle, e cugini, cognati, nipoti, amanti ... Soprattutto in certi settori: all'interno del partito e nel sisterna dei media (giornali vicini, Rai-tv di stato e così via). Impressiona non favorevolmente vedere sempre gli stessi cognomi in tanti posti diversi, o scoprire che certi cognomi nuovi appartengono comunque a parenti di questo o quel nome importante nella struttura organizzativa di quel partito. Sarebbe facile costruire organigrammi, tracciare reti, incasmi, filiazioni. Ma naturalmente il grave non sono i nomi, è il "sistema" complessivo secondo il quale nessuno della "nomenklatura" vecchla e nuova considera tutto questo qualcosa di disdicevole, e anzi sene serve senza pregiudizi di sorta, quasi con innocenza. Come il notaio che lascia il posto in eredità al figlio o il ministro che manda in missione a New York la consorte. Tutto questo è molto italiano, è troppo italiano perché gli italiani vi trovino motivo di scandalo. Ma forse noi non siamo sufficientemente italiani, e scandalo ce lo vediamo. I nuovi nomi vengono dalle periferie del potere regionale, o da quella sacca una volta doviziosa della gioventù organizzata, coptati dall'alto quando sufficientemente bravi e motivati da essersi fatti un nome. Gli altri sono quasi sempre di famuli piazzati dentro e ali' intorno, dove possibile. Si vorrebbe dunque che il modello della perestrojka-della "trasparenza" - cominciasse ad ag_ireanche a partire da questo "minimo", pena la perpetuazione diunastrutturadi piccoli e grandi privilegi di casta e di élite. Pena la continuazione in molti, come risposta, di una antica diffidenza, che è peraltro accentuatainquestitempidaaltriepisodi. Penso per esempio alle interviste di Asor Rosa sulla nuova "Rinascita" (rivista di ignoto fondatore), dove si mettono insieme in un bel fascio Tronti e Bobbio, Fortini e Amato, Haberrnas e Dahrendoff, e poi ancora capre, cavoli, lupacchloni, in un impasto troppo "in" e troppo allegro per poter piacere. Eccetera eccetera. Il gruppo dirigente comunista non ci sembra davvero offrire grandi novità, e la sua cultura neanche. Soprattutto, non ci pare poi molto "diverso". Ma staremo a vedere. Con attenzione e fuori, comunque, dal culto e dalle culture del potere.
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