IL CONTESTO L'insoddisfazione di Sbarbaro PaoloGiovannetti .. Quando, nel 1985, Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller curaròno per Garzanti il volume dell'Opera in versi e in prosa di Camillo Sbarbaro, non vi inserirono le poesie di Resine con le quali il ventitreenne poeta, nel 1911, aveva fatto il proprio esordio letterario. Un'esclusione tutt'.altro che arbitraria, beninteso, dato che lo stesso Sbarbaro aveva rifiutato la raccolta ("Resine non va ristampato": questa la consegna per Scheiwiller), e solo a malincuore aveva permesso, nel 1948, che Enrico Falqui la ripubblicasse nella collana "Opera prima" di Garzanti (".t\1 ricevere del- · le bozze, mi coprii la faccia dalla vergogna", aveva scritto in quell 'occasione). Ora chel'editore Scheiwiller ci offre di Resine un'edizione criticat magistralmente curata da Giampiero Costa, è forse il caso di chiedersi che cosa in quelle poesie dispiacesse tanto a Sbarbaro, e in che senso la sua opera ha superato gli esiti delle prove giovanili. Intanto, bisogna registrare la completezza e il rigore del volume appena edito: oltre ai ventidue componimenti che costituivano la raccolta originale, viene restituita tutta la produzione lirica di Sbarbaro contem- ' poranea a Resine, vale a dire una ventina di testi esclusi dall'edizione 1911 e dalla successiva, testi111oniatidai manoscritti e/o da stampe su rivista; e trova inoltre spazio anche un gruppo di componimenti d'altri autori (Aurore Dupin, Heinrich Heine, Olindo Guerrini, Antonio Fogazzaro), che Sbarbaro aveva ricopiato in un manoscritto afferente a Resine. Utilissimi poi, soprattutto per gli studiosi, sono la cronologia dei testi e· il rimario, che senza dubbio faciliteranno future considerazioni critiche sull'opera poetica e sulla lingua dell'autore. Ma il problema della raccolta, ripeto, è soprattutto posizionale, pro- - spettico. La pronuncia di Sbarbaro, all'altezza di Resine, è lontanissima da quella che solo tre anni dopo verrà testimoniata da Pianissimo, il vero capolavoro del poeta. La ricchezza, il turgore pel dettato, la ricerca d'uno stile sempre alto e dignitoso, diventeranno di lì a poco tetra rinuncia a nominare una realtà complessa, ripiegamento in un mondo fatto di poche e logore apparenze, accettazione nichilistica d'una vita disfatta. Ad esempio, un avvio carducciano come quello del Venlo ("O sempre sveglio, o libero,/ immenso, irrefrenabile"), con tanto di enfasi metrica barbara, è assolutamente improponibile in Pianissimo, dove, se la natura potrà suscitai e un moto d •entusiasmo, sarà soprattutto per propiziare la scoperta di una verità intima, analogicamente suggerita dal mondo fisico ("Il mio cuore si gonfia per te, Terra,/ come la zolla a primavera"). E la ricerca di rime aspre, quasi investite d'una responsabilità fonosimbolica (vedi nella prima strofa del Picco: alligna: pigna: gramigna, testardo: c{!Tdo,arriccia: rossiccia), sarà frontalmente negata dall' ascetica rinuncia, tre anni più tardi, a coniugare ogni sonorità, ricca o povera che sia. Certo, gli endecasillabi sciolti di Pianissimo ci fanno perdere qualche potenzialità ~pressiva, se non espressionistica, attestata da Resine;'e penso ad esempio alla conclusione di una notevole poesia come La cattedrale, dove le opposizioni assiologiche alto/basso, unicità di un· senso superiore/molteplicità formicolante della vita cittadina, giustificano immagini che, stranamente, anticipano le metropoli gesticolanti di Rebora e di Campana: "Ma destata dall'alba, ecco s'arrossa/ sui fastigi, trasale, canta a festaJ dal rombo di sue tre campane scossa;// mentre di sotto, dalla lucé gialla/ e grigia spunta, salta su, si destaj la città che confusa ·s'accavalla". Si tratta però, con ogni evidenza, di eccezioni (e non a caso La cattedrale è cronologicamente uno degli ultimi testi composti), poiché la media di Resine sembra attestarsi in una sorta di koiné fine-secolo, con le sue brave referenze carducciane, pascoliane e dannunziane, tutte perfettamente in regola e puntualmente esibite, e con in più qualche orecchiamento gozzaniano, peraltro praticato senza molta convinzione. Tanto più che Sbarbaro mostra di preferire, fra i poeti ottonovecenteschi am- - piamente omaggiati, soprattutto Carducci, e cioè quello che lo pç>teva spingere non tanto verso atmosfere simbolistiche e inquietanti, quanto a 30 J Camillo Sbarbaro in un disegno di Mino Maccari (arch. Garzanti). idilli e a moralità tersamente referenziali, e inevitabilmente bozzettistiche. E perciò anche la propensione per il lessico botanico (il giovane Sbarbaro aveva già cominciato quegli studi naturalistici che ne faranno uno dei più importanti esperti di licheni a livello mondiale) rischia di risolversi in scorci di eleganza un po' preziosa e coloristica. In qualche caso, addirittura, si ha l'impressione che l'autore compia un'operaziòne, se così si può dire, doppiamente regressiva, dal momento che strumentalizza spunti dannunziani rileggendoli in chiave carducciana: e trasforma perciò il panismo sensuale dell 'Imaginifico in quadretti allusivi fin troppo compiuti e arguti (vedi soprattutto una poesia come Pan, ma anche, almeno in parte, i due testi che chiudono la raccolta). Il rifiuto di Sbarbaro è dunque chiaro: in Resine si impone un vitalismo che la poesia successiva (e, per certi aspetti, anche la prosa) si incaricherà di negare. La raccolta giovanile deve essere occultata, rimossa, cancellata, perché nuovi e più maturi orizzonti nascono e vivono contro i modelli precedentemente privilegiati. Rigeqare Resine in blocco significa insomma buttare via l'atmosfera estetizzante in cui quelle poesie erano state ideate; anche se il gesto di rinuncia comporta la perdita di testi sicuramente <,lignitosi. Ma è un modo di operare, questo, fatto di esclusioni e di ripensamenti quasi maniacalmente ribaditi, a cui Sbarbaro resterà fedele lungo tutto il corso della sua carriera. Prendiamo ad esempio Pianissimo. Senza dubbio si tratta_di una delle opere poetiche più importanti pubblicate in Italia nel primo quindicennio del nostro secolo. Sbarbaro vi opera un• a-· nalisi spietata della propria condizione di alienazione sentimentale, sottoponendo a una critica ferrea e quasi tautologica le apparenze dell 'esistente. Rapporti famigliari (memorabile la figura del padre odiosamato ), incontri erotici, barlumi stravolti della vita cittadina, la natura e lo stesso corpo del poeta: tutte le realtà d'una vita inautentica sono progressivamente e sistematicamente smantellate, fino a lasciare sulla pagina il senso di una desolazione irreparabile. Anche il linguaggio viene affilato in funzione di un 'anatomia psicologica quasi cinica. Non diversamente- almeno sul piano del metodo: vale a dire dello stile - dai contem- .poranei Saba e Michel~edter, Sbarbaro preferisce argomentare pazientemente le stazioni della propria autodistruzione vitale, affidandosi a un'espressione per molti aspetti ascetica, ma sempre capace (e Montale, non molti anni dopo, saprà ricordarsene) di operare uno scavo verticale nelle apparenze del mondo. Non c'è nulla di più reificato e seriale del- !' endecasillabo di Pianissimo, un verso reso ancor più dimesso da un andamento un po' zoppicante (ma, attenzione: le incertezze ritmiche sono con ogni evidenza procurate; e del resto in Rèsinenon mancavano esempi d'uno stile fin troppo lisciato); eppure, proprio quell'organismo logoro permette di lavorare al corpo, verso dopo verso, la falsità delle cose, così da metterne in dubbio l'apparenza consolatoria. Sbarbaro non ha fretta: c'è in lui quasi un masochismo sentimentale che lo porta ad azzerare la propria vitalità, e a mantenere in vita, di sé, soltanto gli occhi, la vera parola-chiave della raccolta. Perché 'occhio' significa sguardo spietato, ma anche lacrime delle cose, analisi impassibile operata da un corpo ridotto alla pura funzione conoscitiva, e, contraddittoriamente, incapacità di reggere fino in fondo al dolore. Un 'ambivalenza affettiva che il poeta sembra quasi reprimere, nella sua conclamata resa di fronte al mondo, ma che riemerge puntualmente non ap.pena la maschera della reificazione sia stata"tolta. Così, anche le poesie, solo superficialmente affettuose, dedicate al padre si risolvono nell'illustrazione di un violentissimo Edipo strategico, e appena dissimuiato: in una sua prosa, del resto, Sbarbaro dirà che il genitore realmente morto, poco dopo la composizio-
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