Linea d'ombra - anno VII - n. 40 - lug.-ago. 1989

crede che sia la verità; quando uno dice di vedere un salotto in fondo a un lago, va preso alla lettera). Ma vide che "questo" non era 'questo' ed ebbe l'onestà nei confronti di se stesso di mandar tutto ali' aria. Avevo letto anche Conrad, sicuramente Vittoria; devo aver letto anche Lord Jim e essermi appassionato, a quell'epoca, per quell'eroe che, per desiderio di espiazione, passa dall'altra parte e diventa una specie di capo tribù. E poi c'è pure il libro di Fletcher (34). J.J.: È stato Prévert a farti leggere Fletcher? • Sì, è stato lui. J.J.: In che anno? Non è stato all'epoca della rue du Chateau (35)? Deve essere stato verso il 1928-1929, forse appena prima del- · 1amissione Dakar-Gibuti. ·J.J. : Potresti dirci due parole su questi due versanti del sur~ realismo, la rue du Chiìteau e la rue Fontaine, insomma Prévert e Breton? Non si può dire che ci fossero due versanti. La banda Prévert (Prévert, Tanguy, Duhamel) era comunque dipendente da Brèton - si è staccata dopo, come gruppo della me Blomet, di cui facevo parte anch'io. Ma non bisogna pensare a tutto questo in termini di bande rivali, ma come a frazioni, quelle che il Partito Comunista chiama frazioni. J.J.: Per i tuoi compagni surrealisti ci sono state queste due parole d'ordine: "Cambiare la vita" e "Trasformare il mondo" ... Sì. "Trasformare il mondo" è Marx; "Cambiare la vita" è Rimbaud. All'epoca, per noi si trattava di far coincidere le due cose. J.J.: Non si può forse pensare che uno degli obiettivi del/' etnologia francese negli anni Trenta fosse, se non trasformare il mondo, almeno trasformare le mentalità e magari cambiare la vita delle colonie? Nell'opuscolo che annunciava la fondazione dell'Istituto di etnologia (36) Lévy-Bruhl proponeva l'idea, senza dubbio neocolonialista, che l'etnologia fosse un metodo per arrivare a modi di colonizzazione più razionali e più umani. Dunque l'idea che questa potesse cambiare qualcosa, idea che proviene all'incirca dallo scientismo del XIX secolo, quando, con la scienza, si pensava di andare verso il progresso, non solo tecnico ma anche morale, dell'umanità. Da questo punto di vista si trattava di un'idea vecchia. S.P. : La settimana scorsa, durante una trasmissione che France-Culture ha consacrato a Claude Lévi-Strauss, è stata posta questa domanda; "Lévi-Strauss è un moralista?" E lei, lo è? Non mi considero per niente tale. Retrospettivamente, posso constatare di aver avuto idee moralistiche, ma era un fatto implicito;non ne ero affatto cosçiente. Mi ricollego a quanto stavo dicendo prima e,che adesso mi torna in mente, l'idea che in fondo noi viviamo ancora nello scientismo del XIX secolo: confondiamo scienza e progresso, confondiamo progresso della scienza e progresso dell'umanità, INCONTRI/LEIRIS J.J.: Immagino che tu abbia abbandonato questa idea! Completamente. Peraltro, ne sono rpolto felice. Penso in generale che l'etnologia non serva a nulla, che non cambi nulla. J.J. : Cosa intendi dire? Non cambia le cose più di quanto non lo faccia un'arte. In fin dei conti situerei l'etnologia piuttosto dalla parte dell'arte. L'etnologia cambia persino meno della filosofia. Se si include la morale nella filosofia, beh una morale ha una certa influenza sui costumi. S.P. : Ma pensando, per esempio, alla situazione degli indios del Brasile, direbbe ugualmente che l'etnologia non ha lapossibilità di cambiare le cose? L'etnologia apporta senz'altro qualcosa, non foss'altro che mostrando come il sacro sia uno dei fattori più importanti nella vita delle società. Ma alla fine i risultati pratici sono quasi nulli. Non voglio dire che ho avuto torto a scrivere L' ethnographe devant le colonialisme, poiché in ogni caso penso che l'etnografo debba denunciare le cose sbagliate che gli capita di osservare. Mi capita persino di firmare questa o quella petizione con cui sono d'accordo, ma alla cui efficacia non credo assolutamente. Si tratta di un gesto morale, sì. S.P. : Lei non ha abbandonato il ruolo di colui che protesta. No, non l'ho abbandonato, ma non ci credo più. È una questione di comportamento personale. S.P.: Qualche settimana fa ho visto il suo nome infondo ad una lettera di protesta su una rivista americana ... · Il mio nome non si può vederlo che troppo spesso in storie come questa! D'altronde ho spesso pensato di smettere, ma se si è d'accordo con un testo che vi si chiede di sottoscrivere, rifiutare è molto imbarazzante. Mi ricordo di un'argomentazione che trovai meravigliosa. Una donna che non conoscevo mi aveva telefonato per chiedermi di firmare una petizione per non so più cosa. In generale ero d'accordo, ma le rìsposi che il mio nome era comparso dappertutto e che ormai non significava più nulla; mi rispo- . se dicendomi:· "Appunto, se lei non firma penseranno che è contrario!" J .J. : A proposito degli etnografi e del loro impegno, vorrei che tu ci dicessi cosa sono stati e cosa hannofatto Boris Vildé eAnatole Lewitsky, che hanno fatto parte della Resistenza-e tra iprimi ali' interno di quella rete detta del Museo del/' ùomo, costituita a partire dal/' ottobre del 1940 (37)-non certo per patriottismo (erano peraltro di origine straniera, russa credo) ma, si direbbe, per cçnvinzione, per etica e, se posso dirlo, perché condividevano pienamente le idee che ali' epoca il Museo dell'uomo di Rivet incarnava. Ho sempre pensato che il patriottismo non fosse il loro movente. Oggi devo dire che ne ho la certezza, anche se avrei delle difficoltà a dimostrarlo con delle prove. J.J.: Vorrei farti un'altra domanda, questa più persona/e. Se tu dovessi fare un bilancio della tua carriera - parlo della tua 87

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