Linea d'ombra - anno VII - n. 40 - lug.-ago. 1989

bero dalle costrizioni della "disco-dance", per ripristinare, come per miracolo, un'età dell'uomo, dell'artista, del musicante, forse non più riproducibile (almeno per lunghi anni). C'è dell'altro: e questo "altro" è una sorta di tortuosità della psiche direttamente riconducibile alla "sindrome di Woodstock". Come dice il nostro amico Riccardo Bertoncelli, quel Festival (a proposito, lo rifaranno in gran pompa, dal 15 al 17 agosto prossimi: tanto per dare ulteriore senso al "progresso senza avventure" tanto in voga in questi tempi) "non fu né il più grande della storia del rock, né, tantomeno, il più importante: e comunque deluse profondamente tutti quanti, critici e pubblico, sotto l'aspetto squisitamente musicale". Eppure là sua "leggenda" continua. E trascina con sé, con affetto a cascata, non soltanto quelli che di Woodstbek furono i primattori, i vari J imi Hendrix e Janis Joplin, Who e Jefferson Airplane, Crosby-Stills-Nash &Young, Arlo Quthrie, Joe Cocker e Ritchie Havens (perfino lui, povero tapino: che dopo quella "tre giorni di pace-amore-musica" non riuscì più a cavar alcun jolly dal suo cilindro): ma anche, incomprensibilmente, quelli che a Woodstock non furono invitati, o se ne tennero ben alla larga. E che in ogni caso, per una curiosa estensione del pensiero, vengono oggi inseriti a forza - tutti insieme appassionatamente-dentro la "WoodstockNation", curioso prototipo di comunità hippy sorto a cavallo degli anni fra i Sessanta e i Settanta. ·Come spiegare questo paradosso, assai più apparente che reale? Forse - la buttiamo lì- con il solito ricorso all '"Effetto Verità": che in questo caso abbraccia il rock, e non i moduli televisivi di RaiTre, il cinereo Bob Dylan e non l'abbronzato speciale Paolo Guzzanti. Per dirla con altre parole, è probabile che il "mito" di Woodstock sopravviva ancor oggi, a distanza dal suo c;ompiersi, "grazie" alla tragica morte dell'anno successivo di Hendrix e della Joplin (per non dire di Jirn Morrison, dei Doors: assente giustificato al Festival, ma prestigiosissimo membro onorario di quella "Woodstock Nation" di cui sopra). "Grazie" quindi - e scusateci per il necessario· cinismo - al pconoscimento esplicito di una profonda osmosi fra musica e vita (e il suo contrario), e della formidabile dialettica fra Utopia e Dannazione, Tras.cendenza e Demonolatria, che bollò a fuoco una bella fetta di quella generazione di rockisti. E dunque, alla resa dei conti, accorrere oggi agli show di un Lou Reed o di un Crosby (anche se sponsorizzato da Craxi), di una Joan Baez o di un Carlos Santana, è un po' come cercare d.iripristinare un'epicità, una tragicità, una lettura "eroica" della storia, tutte quante cadute in disuso: è come tentare di andare a verificare, soprattutto, la visibilità attuale delle stigmate che li segnarono in passato. Che ci si riesca, è quanto mai improbabile. Ma che, di fronte alla proterva scemilà della vita contemporanea, così ben esemplificata da un Jovanotti qualunque, un approccio del genere contenga in sé un che di tenero, di affettuoso, finanche di speranzoso e nobile; ci pare altrettanto indubitabile. Le scuole di musica, i conservatori e tutti gli organismi incaricati a provvedere all'istruzione musicale in Italia non fanno certo onore alla consolidata tradizione che vuole il nostro popolo tra i più musicali al mondo. E il conservatorio, quel pubblico istituto ove si insegna la musica, l'arte di suona- ' re gli strumenti e il canto, è ai più sconosciuto. "Ma tu dove studi?" "Al conservatorio." ''E che cosa è?" "Un luogo in cui l'insegnamento della musica viene conservato così com'è da tempo immemorabile!" Ecco come varrebbe la pena di rispondere. UMILIATA E OFFESA L'INSEGNAMENTODELLAMUSICA • NEr CONSERVATORI Alessandra Anceschi Le scuole ci abituano fin dalla più tenera età a diventare abilissimi nel pronunciare le note una in fila ali' altra, come se si trattasse di upo scioglilingua, dove è più bravo chi arriva fino alla fine tutto d'un fiato. Ma non ci abitua a riconoscere le cellule ritmiche, a eseguirle attraverso le varie parti del· corpo, col risultato che spesso si ha l'impressione di avere a che fare con musicisti che non sentono la pulsazione. Sono convinta che la quasi totalità degli insegnanti di tali scuole sia d'accordo con questa affermazione ed attribuisca, non a torto, la causa della situazione all'inadeguatezza di programmi antiquati. Sono però altrettanto sicura _ che la stessa percentuale non si CJ!ndaconto di essere essa medesima la causa del proprio male. È un grosso cane che si morde la coda, un circolo vizioso la cui soluzione non sarà certo immediata, ma che non si presenta impossibile purché si parta da tutt'altri presupposti. Che cosa manca? Di che cosa abbiamo bisogno? Quante discussioni sono state fatte a questo riguardo! Mille diagnosi sono già state pronunciate. E allora ripetiamolo una volta di più, perché la perseveranza è sempre degna di lode e spesso riesce ad ottenere ciò 52 che vuole. Tanti, dicevamo, avvertono questo senso di responsabilità, ma come ben sappiamo un cambiamento presuppone un grosso sforzo di adeguamento personale, mentre per molti è certo più utile e vantaggioso continuare a insegnare nel modo col quale essi stessi si sono formati. Manca allora la motivazione a cercare il nuovo, l'attuale, anche se, diciamo la verità, ormai siamo sommersi da tanti nuovi stimoli e da tante nuove metodologie, che, appenasi volesse cambiare, avremmo solo l'imbarazzo della scelta. Gli insegnanti di conservatorio si ritengono spesso depositari di una verità incontrastata e pochi li ostacolano su questo terreno. Tra tutte le categorie di insegnanti, quella dei docenti delle scuole cosiddett~ "professionali" di musica è infatti ìa più presuntuosa (forse perché al tempo stesso la più ignorante) e· mai sarebbe disposta a rinunciare alle proprie inveterate e consolidate tradizioni in· favore di altre provenienti da altri ambienti. Ricordo che a un corso di improvvisazione al pianoforte tenutosi a Fiesole qualche tempo fa (chi sa improvvisare è considerato alla stregua di un amabile dilettante nel mondo della musica "colta"), e dunque nella scuola rivoluzionaria per eccellenza diretta da quella straordinaria figura di musicista per così dire totale che è Piero Farulli, i partecipanti provenienti da tutta Italia e,ano esattamente dieci, laddove i pianisti invece sono migliaia e migliaia! Per~ ché tanta sproporzione? L'improvvisazione è un atteggiamepto inteso soltanto a soddisfare gli estri amatorii di qualche spirito bizzarro? Ma non improvvisavano forse Mozart e Beethoven e tutti i più grandi pianisti fino a gran parte del secolo scorso? Per non parlare poi della composizione, dove ancora una volta il musicista che vuole imparare a comporre· è più attentò agli errori di sintassi della scrit.tura che a quelli del risultato sonor·o. "Stai attento, qui ci sono due quinte parallele, non le vedi?"; ma non sarebbe meglio allora dire "Le senti?", visto che l'organo sensoriale del musicista è per fortuna ancora e sempre l'orecchio? Tenere il tempo, come si dice, è un'abilità eminentemente motoria, non verbale, ma spesso srconfonde l'esperienza ritmica con il calcolo numerico. Non dimentichiamo che così facendo si limita o qUasi si impedisce l'espressione della creatività, che sarebbe necessario invece seguire e guidare anche solo per un utilizzo che fosse fine a se stesso. Certo, la creatività intimorisce, le novità spesso offendono, ma perché rassegnarsi a ridurre lo studio della musica a sterili esercizi di dizione? Un diverso costume di insegnamento è utile soprattutto durante le prime e delicate fasi di Studio. Il curriculum scolastico necessario a ottenere un diploma musicale è tra i più lunghi in assoluto (dieci anni per lo studio del pianoforte, del violino, del violoncello, della composizione, eccetera), e renderlo meccanico e noioso fin dall'inizio significa compiere un atto vero e proprio di terrorismo

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