quanto "fa africano" e di cui di solito si fa abuso per permettere agli occidentali di riconoscere il proprio "immaginario". Così, pur se ripetutamente attaccato dopo Le choix, anche Yaaba ha avuto il coraggio di riproporre un funerale senza riti la cui solennità è sancita solo dallo stato d'animo di coloro che vi assistono. E con lo stesso coraggio valorizza il personaggio più grottesco della comunità: l 'ubriacone impotente che diviene nel corso del film, l'unico adulto a non seguire bovinamente l'isteria del gruppo, la sua violenza stupida e cieca. Conferma del piacere che prova il regista nel raccontare seguend9 le proprie emòzioni, senza nessun desidetj.o di impressionare lo spettatore e di impartirgli lezioni, scartando ogni possibile suggestione antropologica o poeticizzante. AFRICA:UN CINEMA "ORFANO" SENZABISOGNO DI PADRINI Gianni Canova È uncinema"orfano". Non ha padri né modelli. È privo di tradizioni e di eredità. È povero ma non pauperistico, semplice ma non semplicistico, rigoroso ma non fanatico. Si nutre dei fermenti vitali di una cultura attraversata da contraddizioni laceranti e li trasforma tout court in fùm: magari in film non del tutto perfetti, talora fragili e ingenui, ma segnati da una vivacità e da un'autenticità sempre più rare e preziose nel panorama • cinematografico internazionale. Della novità rappresentata dal nuovo cinemanord-africano, guarda caso, in Italia pochi sembrano accorgersi. L'Africa da noi è ancora tabu, per lo meno al cinema. E i film africani restano per lo più interdet\i, non distribuiti, ghettizzati. Così, mentre la gestione dei rapporti culturali con il cosiddetto "continente nero" sembra appaltata al monopolio delle agenzie di viaggio costruite su misura per la volgarità dei nuovi ricchi, continuiamo tutti a vivere beati in regime di monocultura coatta, ottusamente autolesionisti nella nostra ignoranza e inconsapevolmente razzisti nella nostra stupidità. 48 Non che le cose vadano meglio negli altri paesi europei, beninteso. Il recente festival di Cannesl 'ha dimostrato inmaniera lampante: Rose des sables, dell'algerino Mohamed Rachid Benhadj, e Les sabots en or, del tunisino Nouri Bouzid, espressioni di punta del nuovo cinema maghrebino, sono passati al Palais fuoriconcorso, in sezioni collaterali eminori. Lecronache isterico-mondane del festival, di conseguenza, ne hanno parlato poco, o non ne hanno parlato affatto. Con un solo, semplice e nticidiale effetto: quello di .condannare anche questi due film a una circolazione marginale entinoritaria, prima di finire dimenticati in un fondo di magazzino. Peccato. Nonostante i loro lintiti, sono tra i pochi filmdella stagione davvero meritevoli di essere visti (di Yaaba il terzo, importànte film africano presentato a Cannes, parla diffusamente Annamaria Gallone nelle pagine che mi precedono). E capaci di ricordare a tutti che cosa significhi un cinema che sappia ancora confrontarsi con la vita.- Rose des sabl~s è un bellissimo film sulla solitudine, sull'immaginazione e sull'intricato groviglio che lega il rapporto fra uomo e uomo aquello fra uomo e natura. Moussa e Zineb sono un fratello e una sorella che vivono nel deserto algerino, vicino ali' oasi di El Oued. Lei va tutti i giorni a lavorare in una fabbrica di datteri in città, mentre'lui trascina il suo corpo martoriato, senza braccia e con una gamba sola, su e giù perle dune di sabbia, andando-a innaffiare una rosa solitaria che ha piantato in mezzo al deserto. Nel mondo che sta intorno a Moussa tutti sogn~o l'amore, anche se nessuno è capace di aJIJare.Si ama per procura, sognando. E quando un sogno si spezza, subito se ne costruisce un altro. Qualcuno, per facilitarsi il compito, sceglie di sognare con la tv, che arriva anche nel deserto abordo di un asino o di un cammello. Qualcun· altro, affascinato dall'automobile, sogna di andarsene inun altrove comunque configurato. Moussa invece resta ll, tenacemente abbarbicato al suo piccolo spazio vitale. E a chi dice di voler andare via, risponde: "La sabbia fa parte della nostra vita. È ovunque la stessa cosa. Qui la sabbia, altrove qualcos'altro". Nel film di Benhadj il deserto ha cessato di esercitare quella fascinazione antica, intrisa di echi da Mille e una notte, che traspariva da Les bali!eurs du desert di Nacer Khemir.11 deserto è diventato quasi una condizione mentale. Certo: avoler leggere il film come una metafora degli handicap e dei sogni del Terzo mondo, come pure qualcuno ha fatto, rischia di risultare poco interessante e tutto sommato ovvio. Ma se ci si lascia catturare dai suoi ritmi e dalla sua luce, oltre che dalla sua ferocia quasi leopardiana nell'indagar~ la desolazione e la tenerezza del vivere, non gli si può non riconoscere una toccante capacità di coinvolgerci e di lavorarci dentro, in profondità. Diverso il discorso per Lessabots enor,operasecondadiNouri Bouzid, già segnalatosi con L'uomo di cenere (1986). Se nel suo film d'esordio Bouzid aggrediva, con il linguaggio aspro di un realismo coscienziale intriso di venature melodrammatiche, alcuni tabù della cultura -islamica (I' omosessualità, l'amicizia fra arabi ed ebrei) attraverso il "romanzo di formazione" di due giovani emarginati di Sfax, con Les sabots en or tenta piuttosto il bilancio di una stagionepoli~ico-esistenzialeconclusasi con una drammatica soonfitta. Youssef Soltane è un intellettuale marxista che ha scontato sei anni di carcere nèlle prigioni di Bourghiba per aver militato negli anni Settanta nel gruppo di estrema sinistra "Perspectives Tunisiennes". Quando esce di prigione, quarantacinquenne, si scontra con un mondo diverso da quello che aveva lasciato. Torna alla vecchia casa di famiglia, ma non trova più nessuno. La moglie Fatma, ripudiata a suo tempo a favore di un'amante più emancipata e borghese, è morta. I tre figli sono cresciuti e hanno seguito ognuno la sua strada. Il fratello è diventato. un integralista militante. E anche l'ex amante non gli procura più i brividi di un tempo. Ossessionato dagli incubi delle torture subite e dalla memoria ancora nitida della clandestinità, Youssef si aggira di notte per i souk della medina, accompagnato da un vecchio compagno artigiano, in un girovagare a vuoto tra vino, donne e ricordi, che lo conduce alla progressiva presa d'atto del disincanto e del fallimento. Appesantito a tratti dall'insistito simbolismo (il mattatoio, il puledro stramazzato, il manoscritto bruciato), Les sabots en or trova i suoi momenti migliori, ancora una volta, nella messinscena del rapporto fra personaggio e ambiente: una Tunisi deserta e notturna, umida e piovosa, immersa in una desolazione sentimentale che prende letteralmente alla gola. Le cinematografie più diverse, quando affrontano temi come questo, finiscono sempre per adottare analoghi registri espressivi. Il film di Nouri Bouzid fa pensare così a El S ur di Fernando Solanas, aHanna K. di CostaGavras o persino - sia pure un po' forzatamente - a San.Michele aveva ·un gallo dei Taviani o a Le stagioni del nostro amore di Vancini: fenomenologie delle illusioni perdute e, insieme, prese d'atto di una sconfitta politico-esistenziale, oscillano tutti fra presente e passato adagiandosi nel rifugio accogliente del simbolo e dell'al!egoria. Che avvengano in Argentina, in .Tunisia o in Italia, da vent'anni a questa parte le sconfitte della sinistra non riescono a esprimersi sullo schermo che con lo stesso linguaggio stereotipato: segno che la sconfitta è grave e generalizzata. Ha ormai intaccato anche le forme simboliche attraverso cui la cultura d'opposizione cerca di riflettere su se stessa e sui propri scacchi.
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