Linea d'ombra - anno VII - n. 40 - lug.-ago. 1989

conti con la situazione che si è creata, percorrono i Ì:onfini del solido nulla reso palpabile dal- !' evento inatteso, ma annidato nel cuore della loro stessa esperienza. E i ruoli finiscono per rovesciarsi: lui, partito, volatizzato, forse defunto, è più vivo dei rimasti: o meglio, loro non sono meno morti di lui: che però è stato almeno capace d'un soprassalto di coraggio -o di onestà. Secondo un procedimento tipico di Pontiggia, il racconto è suddiviso in una serie di scene piuttosto brevi e relativamente autonome, spesso dedicate al ritratto di uno dei numerosi personaggi di contorno che l'infruttuosa investigazione chiama in causa di volta in volta: ciascuno dotato di personali idiosincrasie, ma tutti immersi in una medesima temperie morale. L 'umanità che Pontiggia s'impegna a descrivere è animata al fondo da un unico, prepotente impulso egoistico, dà un desiderio esclusivo e geloso di autodifesa o di autoafferma1ione, a sua volta costantemente insidiato dalla paura, in tutte le sue possibili forme e versioni. Paura degli altri e di se stessi, paura di riconoscersi e di essere conosciuti, paura del cimento e dell'esclusione. Su queste basi,-è ovvio che l'elemento dominante dei rapporti interpersonali sia costituito dalla menzogna, variamente declinata a seconda dei casi (può perfino accadere, paradossalmente, che la consapevolezza dell'inganno reciproco valga come fattore di rassicurazione); e altrettanto ovvio è che nessuno arrivi a essere mai realmente felice, se si eccettua lo stolido compiacimento di chi, come tanti letterati alla moda, si pasce di apparenze vacue e risibili. E inevitabile è altresì che un siffatto amor di sé sia destinato a capovolgersi in un impulso di morte, che rappresenta il complemento necessario di uno stato di asfissia spirituale ed emotiva. Emblematico da questo punto di vista il caso del fratello dello scomparso, Mario, forse il personaggio più importante del libro, un critico cinematografico precocemente inaridito, arrovellato fra ambizioni frustrate, pervicaci illusioni e scetticismi corrivi. Come nei precedenti romanzi di Pontiggia (Il giocatore invisibile, 1978, e/l raggio d' ombra, uscito nel 1983 ma riproposto l'anno scorso in una nuova edizione), a esser messo sotto accusa è un intero ambiente sociale, quello del1' alta e media borghesia urbana e delle sue frange colte: uomini d'affari, professionisti, intellettuali, scrittori, esponenti di un ceto materialmente benestante e umanamente squallido, di cui Pontiggia smaschera con severità impietosa ipocrisie, meschinità e miserie. Ma il fallimento ricade, com'è naturale, soprattutto sulla co,mponente maschile adulta. Residue risorse di autenticità sono infatti attribuite (o meglio, non · sono pregiudizialmente negate) alla nuova generazione, incarnata da Andrea, il nipote acuì lo scomparso lega un'eredità ingente quanto inattesa; mentre fra i personaggi femminili (che del resto non appaiono mai in ruoli socialmente eminenti) si registrano almeno le doti di reattività della prima amante, Ada, che forse saprà ricavare dall'esperienza un insegnamento positivo. Non sarebbe appropriato tuttavia sopravvalutare le prospettive dischiuse da certi episodi, e proiettati oltre i confini del libro. Le pagiGiuseppe Pontiggio (foto di G. Giovonnetti). ne di Pontiggia ci consegnano una visione desolata della realtà: coscienze rattrappite in un egocentrismo futile e mesto, dissipate nell'ignavia di un narcissismo mediocre, un tessuto sociale tenuto insieme da interessi, abitudini o complicità, che sembra aver smarrito perfino il ricordo di ogni senso di solidarietà, d'ogni spinta ideale. Questo non significa, beninteso, che i personaggi non si interroghino su se stessi, sulle pro-• prie scelte (o non scelte), né che manchino di penetrazione psicologica. Al contrario. Se la funzione giudicante viene esercitata di norma dal narratore, che correda il racconto di una serie fittissima di commenti amari e di taglienti CONFRONTI Lalotta nella foresta. IL CONTESTO aforismi, nel corso dei dialoghi non è raro Ìn;- contrare battute che contribuiscono efficacemente alla diagnosi di aspetti maggiori o minori del futile marasma in cui sembra precipitata un'intera generazione. Ma proprio qui sta il punto. Dire, indovinare delle verità non è difficile; mal' assuefazione alla menzogna preclude ormai la stessa distinzione tra il vero e il falso. Le verità dette ( o dicibili) sono destinate inesorabilmente a degradarsi: come ben intuisce il finanziere Terragni, le parole tradiscono il pensiero, nel senso ormai nemmeno' più duplice di rivelarlo e distorcerlo. Il problema non è parlare, ma vivere, ossia (enigma, questo sì, insolu- · bile) dare un senso ali' esistenza. Ecco dunque perché la verità da cui tutti tentano in un modo o nell'altro di sfuggire assume la forma di un 'assenza-cioè di un silenzio abissale e irrevocabile. Giuseppe Pontiggia si inserisce con autorità in una illustre tradizione narrativa del Novecento, che rielabora motivi del detective nove/ per delineare una condizione di scacco intellettuale e umano. Il limite della sua scrittura, giocata sul'doppio registro del)' essenzialità espositiva·edella demistificazione satirica, consiste più che altro nel pericolo di spingere sobrietà e asciuttezza fino ai limiti della frigidità, o del mestiere - sia pur di alto livello. I racconti di Pontiggia non offrono le attrattive di lettura delle storie di Diirrenmatt. né conoscono le armoniche grottesche e giocose o le risonanze metafisiche di Pirandello o Kafka; per questo, quando ai momenti di più mordente satira subentra la · narrazione distesa, corrono a volte il rischio di inaridirsi sull'inameno della narrazione. Ma ciò deriva, in primo luogo, da un proposito di linearità e di temperanza espressiva eretto a norma morale, prima ancora che estetica. E nel complesso non si può non ammirare la profonda serietà di Pontiggia, la sua finezza introspettiva, il suo senso della misura, la sorvegliatezza del suo stile: .la congruenza, infine, tra gli intenti e ir.isultati della sua opera. Da questo punto di vista.La grande.sera rappresenta senza dubbio un punto d'arrivo, che conferma il valore di uno dei nostri scrittori di più sicuro merito. Unromanzo"partigiano" di Pepetela Fabio Gambaro Mayombe (Edizioni Lavoro, pagg. 256, L. 20.000) è l'opera più importante di Pepetela(alias Artur Carlos Mauricio Pestana dos Santos ), lo scrittore angolano che meglio ha saputo interpretare i drammi e le sofferenze della sua terra dilaniata da lunghissimi anni di guerra, prima contro le truppe dei coloni portoghesi, poi contro le bande di Savimbi appoggiate dai sudafricani. Il romanz.o - terminato nel 1971, ma pubblicato a Luanda solo nel 1980 per l'insistenza dell'allora presidente Agostino Neto - parla appunto della prima fase di questa lunga guerra, quando, agli inizi della lotta di liberazione, l'MPLA fece della regione di Cabinda, I' enclave angolana in territorio congolese, il banco di prova della sue capacità operative e politiche. In quella zona, nella foresta di Mayombe, agisce un piccolo gruppo di guerriglieri, di cui poco a poco apprendiamo la v·ta quotidiana, le azioni di guerriglia contro i tuga (i portoghesi), i difficili rapporti con la popolazione lo ale, i collegamenti con le retrovie in territorio congolese, la fatica e là paura, gli amori e le discus23

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