Linea d'ombra - anno VII - n. 40 - lug.-ago. 1989

IL CONTESTO (che si riflette fatalmente sulla stessa "guarigione"). L'eredità freudiana è sterminata e preziosa, tnaoltre a farci acquistare qualcosa ci fa perdere altre cose, o comunque è l'espressione storica di una perdita.Le verità cui perviene (opuò pervenire) l'analisi sono in fin dei conti verità cui per molti secoli si è giunti attraverso l'imprevedibile e casuale succedersi dell 'esperienza, attraverso insomma la vita stessa. Anche Jervis si chiede se il normale e spontaneo scambio umano possa effettivamente staccarsi dal suo corso più naturale. Ma non è sempre chiara la distinzione tra momento strettamente terapeutico (che necessita di cognizioni tecniche) e normale esperienza conoscitiva e relazionale. La critica di Bettelheim (cfr. /l cuore vigile) muòve invece più dall'interno della stèssa psicanalisi. Una volta riconosciuto che questa offre il metodo migliore per capire l'inconscio, non ne consegue necessariamente che la parte inconscia, nascosta, dell'uomo sia quella più vera o più profonda. Prendiamo per esempio i moventi che spingono ad abbracciare la professione dell'analista. Jervis mette giustamente, accanto al desiderio di prestigio e di appartenenza, accanto al narcisismo e alla tendenza a parlare dei problemi altrui per non parlare dei propri, una "disposizione d'animo all'aiuto", una tensione generosa, una capacità di attenzione a persone sofferenti. Qual è la motivazione più profonda, quella determinante (ammesso che ce rie sia)?,Forse quella meno confessata e confessabile, o meno nobile? E comunque, una vocazione ad aiutare il prossimo che soffre da dove può nascere in una società come la nostra, totalmentescristianizzataeprivadiverilegami comunitari? Dobbiamo ipotizzare uno stato di grazia, un'ispirazione di tipo religioso? Vorrei chiedere a Jervis: è possibile trovare "nell'eredità freudiana", che pure aspira a spiegare il comportamento umano, qualche elemento che ci permetta di dare una risposta plausibile? · - Bisogna dare atto ali' Autore di aver scritto una sintesi fulminante di alcuni decenni di dibattito intorno alla psicanalisi, con riferimenti molto puntuali ali' epistemologia, alla fi. losofia, alla biologia, alla critica testuale, ecc. Una sintesi utilissima, capace di orientare subito nel groviglio delle posizioni e delle controversie, mai faziosa e scritta con animo sgombro da ostilità preconcette. Vorrei sapere però da Jervis se è giusta una mia impressione di imbarazzo su un aspetto nqn trascurabile dell' eredi. tà freudiana, la teoria delle pulsioni, che qui si dichiara non più difendibile scientificamente. Ci si preoccupa visibilmente di "salvarla" in quanto nucleo irriducibile ed ev rsivo della psicanalisi. Non si tratterebbe dunque di una realtà oggettiva, misurabile, ma solo di una metafora che rimanda "all'esperienza, che ciascuno di noi conosce, df essere agiti da forze come la passione amorosa o l'aggressività". Però messa così è davvero un po' poco. Se fosse soltanto questo, non avrebbe allora ragione Calasso quando scrive che dagli antichi greci "nessuna psicologia ha fatto un passo oltre se non nell'inventare, per quelle potenze che ci agiscono, nomi più lunghi, più numerosi, più goffi e meno 22 efficaci" (cfr. Le nozze di Cadrno e Armonia)? - Mi sembra che in questo libro si aggiri un imbarazzante fantasma che avrei preferito fosse stato esplicitato maggiormente: si tratta della classica questione filosofica di quella cosa che si chiama "realtà" (non ho letto alcuna recensione a questo saggio, e ignoro se sia stata posta in evidenza). Lapsicanalisi, con tutta I'incertezza del suo statuto di scienza, pretende però di "distinguere la realtà dagli autoinganni della mente". Si parla infatti di una parte reale (o sana) della relazione paziente-analista, contrapposta a una parte irreale (o patologica). Si obietta all'ermeneutica che c'è una realJà da leggere e non solo da scrivere o da creare. In tutta la tradizione psicanalitica c'è questa ossessione della "realJà", che qualche tempo fa aveva suggerito aquà!cuno un audace accostamento alla tradizione mistica (impegnata anch'essa a liberare l'individuo da una percezione falsa, immaginaria delle cose). Il concetto di salute, per quanto relativo e precario, è legato in qualche modo al riconoscimento di questà "realtà". In passato sono state sollevate, com 'è noto, alcune obiezioni di tipo "politico" su questo rapporto tra salute psichica e realtà: la salute può significiqe conciliazione, adattamento conformistico, ecc. (cfr., tra gli altri, Marcuse, allora prefato da Jervis, ma che qui non viene mai citato). Quelle obiezioni hanno perso valore? Sono diventate progressiv amenteestranee ali' Autore, che comunque si è sempre caratterizzato come uno psicanalista con spiccati interessi in senso etico-filosofico e politico? - Vorrei concludere con un'osservazione più generale, e una richiesta (anch'essa non so bene quanto legittima). In questo libro leggiamo che non bisogna mai dissociare la teoria CONFRONTI "dalle esperienze personali e soprattutto affettive che l'accompagnano", le idee dalla vita vissuta. E si aggiunge pure che troviamo più verità nelle opere biografiche che nelle rassegne di teorie. Questo delicato rapporto tra idee ed esperienza mi sembra qui meno trasparente che in altri scritti di Jervis. Ho riletto l'introduzione al Buon rieducalore, un 'autobiografia intellettuale (scritta più di dieci anni fa) che per capacità di rappresentazione della realtà e per qualità stilistica è superiore a molti romanzi dello stesso periodo. Uno scritto esemplare, la cui lettura credo sia indispensabile per capire qualcosa degli ultimi decenni della nostra storia. Mi è venuta voglia di rivolgere a Jervis alcune delle domande che allora si poneva. Certo, il libro che ha scritto ora non ha soltanto un fine didattico e divulgativo: contiene anzi pagine molto belle e molto originali (sull'uso della psicanalisi nella critica letteraria, sul ridimensionamento della parola, che non coincide affatto con il pensiero e l'intelligenza, ecc.). Però ho sentito la mancanza di quelle domande, di quel rappor • to passionale con l'esperienza individuale e sociale (forse a causa di una mia disattenzione, poiché anch'io, come gli analisti, vado soggetto a "molte variazioni intellettuali e umorali"). Crede ancora Jervis, a distanza di anni, che le éause di disturbo psichico siano "strettamente legate alle contraddizioni sociali''? O che gli psichiatri che scelgono la professione di analista diventino "persone più conformiste e più piatte"? O se la fine, allora malinconicamente diagnosticata, del "sogno di un'alternativa culturale" può condizionare il nostro riferirci a esi-. genze di emancipazione? Interrogativi che possono suonare primitivi o molto personali. Anzi, come probabilmente direbbe uno psicanalista, interrogativi che soprattutto gettano una luce sull'interrogante e sulla sua situazione. Fuga nel silenzio. · l'ultimo romanzo di Pontiggia Mario Barenghi · · L'assenza, la fuga, l'inafferrabilità - i temi che più ricorrono nell'opera di Giuseppe Pontiggia - tornano nel suo ultimo romanzo, Lagrandesera (Mondadori, pp. 317, L. 26.000) con un nitore quasi didascalico. Al centro della vicenda è un enigma, un punto oscuro; o, per dir meglio, un vuoto. Un giorno qualsiasi, in una grande città, un affermato professionista (di cui non è mai fatto il nome) inopinatamente scompare. Nessuna traccia, nessun messaggio, nessun indizio: una sparizione pura e semplice, che di primo acchito sembra priva di motivo. Man mano che il racconto procede, però, risulta con sempre maggiore chiarezza che i motivi non mancano; di più, che sono infiniti: che anzi quel vuoto, che la sparizione rende palese e (per dir così) materializza costituisce la sostanza autentica della vita di cui lo scomparso protagonista era partecipe. Il libro non ha una trama vera e propria. Ciò che narra, sono le imbarazzate indagini condotte dal fratello e dal!' amante (alquanto più tiepido l'interessamento della moglie), che non sortiranno esiti apprezzabili. Qualche piccolo segreto, per la verità, viene anche alla luce: certi affari al limite della legalità, gestiti insieme aun collega, una relazione con una giovane donna, ignota sia alla moglie sia all'amante ufficiale. Ma di circostanze siffatte se ne potrebbero scoprire ancora, e non cambierebbe alcunché. La vita dell'innominato assente comprendev~ risvolti nascosti; misteri, nessuno, giacché tutto rientrava senza residui nel quadro di una medesima insignificanza esistenziale, che solo una tenace ipocrisia o un conformismo incallito potevano impedire di cogliere in tutta la sua evidenza. La scomparsa acquista così il valore di una rivelazione: i personaggi, costretti a fare i •

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