• che detto, ma per osservarne le occorrenze in un contesto diverso, si direbbe, da quello della malattia stessa. Qui, anche se questo libro è un' autobiografia, di quella esperienza non c'è traccia, almeno mi sembra. E anche questo diventa una domanda: non è rimasto proprio nulla, così come era stato per i progetti di Freud, di questi "progetti" della psichiatria? È solo una questione di campo? È allora forse possibile e necessario formulare l'ultima domanda che riassume le altre: questa crisi radicale teoretica, per essere non solo risolta, ma posta, non comporta, appunto, di mettere in discussione tutto, ma proprio tutto, e con quello stesso rigore di cui Jervis dà così splendida prova in questo libro? Recensione in forma di questionario Filippo La Porta Chi come me ha avuto rapporti molto scarsi e molto indiretti con il trattamento psicanalitico non si sente particolarmente legittimato a parlare dell'ultimo libro di Giovanni Jervis, La psicoanalisi come esercizio critico, (Garzanti) che si presenta come "un contributo alla definizione della psicanalisi come pratica terapeutica". Però, ci avverte la quarta di copertina, "ne vengono coinvolti temi culturali di notevole interesse anche per chi non appartenga alla cerchia degli addetti ai lavori". Proprio in quanto · non addetto ai lavori intendo fare delle considerazioni di tipo non tecnico e volutamente frammentarie. Considerazioni a cui vorrei dare la forma, insolita per una recensione, di un' inter - vista a distanza, di un questionario da sottoporre ali' Autore. Il che mi permette di formulare nel modo più diretto alcuni interrogativi nati dalla lettura del libro. -La prima parte, riguardante la conoscenza psicanalitica (ma in fondo tutto il libro) rappresenta una sentita e argomentata apologia dell'occidente, voglio dire dell'Occidente critico, analitico, demitizzante e demistificante, non dogmatico, scettico e probabilistico, capace di dubitare di tutto, perfino di se stesso che dubita (come quell'immagine del serpente che simangialacodafino a sparire). Ora, se davvero l'ispirazione filosofica ultima di queste pagine è il criticismo kantiano, troviamo in esse un esame dei limiti della ragion psièanalitica chè risulti soddisfacente? Qualche voltasi ha l'impressione di oscillazioni non interamente riportabili alla natura antinomica e proteiforme del1' oggetto in questione (definito insistentemente "complesso", con una sorta di omaggio a un lessico un po' di maniera). Da una parte si afferma che la psicanalisi è soprattutto un contributo critico alla psicoterapia, come "richiamo al significato dei fattori psìcologici inconsci che entrano nella relazione". Il libro è infatti pieno di consigli molto giudiziosi e molto persuasivi agli analisti (sul loro modo di porsi con il paziente, sui loro rischi professionali). Dall'altra si tende ad allargare la portata e il val ore di questo "esercizio critico" estendendolo all'intera cultura ed esperienza umana. Va bene che la psicanalisi è "la storia viva e tormentata di un movimento", non "un corpus teoretico coerente ed esauriente", non "un chiuso edificio di certezze dogmatiche". Ma quale teoria o disciplina avrebbe oggi l'improntitudine di definirsi come tale? Sì, la psicanalisi è stata, ed è movimento, però non è il movimento surrealista o, poniamo, il movimento del '68. Si pone delle precise finalità curative, relativamente a certi disturbi psichici e a certe fasce della popolazione con determinate caratteristiche (come qui viene opportunamente puntualizzato). È come se ogni volta ci trovassimo di fronte qualcosa di diverso da quello che ci aspetta~ vamo: una dottrina, un patrimonio di espérienza, un metodo di indagine, una scienza molto sui generis (un punto sul quale Jervis è illuminante, attraverso una avvincente descrizione delle due anime di Freud-Faust, fiducioso nel progresso della scienza e scettico sulla conoscenza). Un oggetto inafferrabile e inattaccabile, che si restringe e dilata a piacimento. Nel libro, in verità, si distingue sempre, assai puntigliosamente, tra i diversi piani; ma si resta nel dubbio su quale sia infine il modo più corretto di praticare questo "esercizio critico". Tutto ciò è in qualche misura inevitabile? O magari è imputabile a una ricerca (regressiva) di certezze rassicuranti da parte del lettore? - A proposito di questo "esercizio critico", e della sua specificità, l'accento è in genere posto, come abbiamo visto, sulla "razionalità demitizzante". Unainstancabileeostinatadisposizione a indagare, che ha le sue radici nel- !' illuminismo stesso. Ora, vorrei chiedere ali' Autore, che ha letto i "francofortesi" (e anzi in qualche caso ce li ha fatti conoscere): questa smania di svelare e autosvelare, che ha sènza dubbio un contenuto emancipativo, può dare alla lunga qualche ver.tigine? Leggiamo oon apprensione che perfino nella "attività autocritica e autointerpretante" possono celarsi proditoriamente "operazioni narcisistiche e difensive". A volte si dubita di essere ali' altezza di un esercizio critico così insinuante e funambolico (ma forse proprio a questo fine occorre una figura "tecnicà"). Ci hanno detto chela modernità non è solo stare in un vortice, ma stare a proprio agio nel vortice. Però qualche volta possono anche venire. dei giramenti di testa. Può capitare di perdersi in un gioco di specchi senza fine (e infatti Jervis, in polemica con certe esasperazioni dell'ermeneutica osserva che non tutto è riducibile a interpretazione). È stato detto e scritto molto a proposito della "cultura del sospetto" (Nietzsche, Marx, Freud), del ridurre tutte le manifestazioni umane a un interesse. Certo, c'è sempre dentro di noi un interesse (nelle spiegazioni che forniamo, nelle rappresentazioni che produciamo, ecc.), un interesse soggettivo che spinge a razionalizzazioni, ricostruzioni dicomodo, ecc. Ma, sempre dentro di noi, forse non proprio tutto è soggettivo; forse esistono anche altri punti di vista, che possono risultare estranei a interessi di tipo difensivo. E senza per questo dover pensare a improbabili esperienze IL CONTESTO estati~he. È singolare come 1~ nostra cultura psicanalitica più viva, più slegata da un angusto ambito disciplinare, si ritrovi oggi di fronte a un bivio paralizzante: o, irt• odio alle divagazioni speculative e alle seduzioni retoriche, tende cautamente a còincidere di nuovo con se stessa e con il proprio orizzonte, refrattaria a immaginare altro, oppure, per il desiderio di uscire da sé, si accende di bagliori panici. La questione diventa in certo modo antropologica: come collocare questa attitudine disvelante? È il massimo cui umanamente aspirare? Corrisponde a un ineliminabile impulso umano (che nella nostra particolareciviltàha avuto uno sviluppo abnorme e non più reversibile)? È in grado di prcicuS. Freud visto da David Levine (Einaudi). rare piacere (e quale particolare tipo di piacere)? Riguardo all'illuminismo Lichtenberg eb-· be una volta a dire che il chiarore deve essere fatto con torce e fiaccole: non bisogna incendiare le case per illuminare le vie! Mi piacerebbe sapere se anche Jervis teme i possibili effetti distruttivi del pathos della investigazione. -A proposito delle critiche alla psicanalisi la bibliografia è quasi illimitata, specialistica e non. Pensiamo solo alle resistenze incontrate in Italia (tra idealismo, cattolicesimo e fasci-, smo ). Sarebbe impossibile tener conto dell'insiemediquestecritiche, molte delle quali ormai parte integrante della stessa "eredità freudiana". Nel libro vengono discusse (e persuasivamente confutate) soprattutto quelle dei filosofi della scienza. In particolare vorrei citarne due, che naturalmente Jervis conosce,benissimo, ma con le quali avrebbe però potuto dialogare in modo proficuo. Una è quella di Adorno alla terapia. Adorno, che qui viene usato solo parzialmente, non si limita infatti a salutare in Freud un grande pensatore borghese radicale, ma proprio nelle stesse pagine dei Minima moralia mette in evidenza il carattere artificiale, meccanico, volontaristico del trattamento analitico 21
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