Linea d'ombra - anno VII - n. 40 - lug.-ago. 1989

IL CONTESTO malato,nonsolo dal punto di vista del terapeuta, e non solo-aggiungerei qui-per il suo vantaggio". Questa è la prima osservazione critica che gli avevo rivolto e che ancoragli rivolgo.Ma ve n'èoraunaseconda. Vièin tutto il libro una sorta di procedimento retorico che non so se abbia un nome: si tratta di descrivere per colpire. La situazione, l'ipotesi, la teoria vengono riassunte, descritte, epoi colpite. Ora io non so sele teoc rie, le dottrine descritte siano esposte con verosimiglianza. Certo sono esposte con suprema chiarezza, con eccezionale bravura. Ma osservo che ognuna di queste dottrine è per così dire esposta senza contesto o con un contesto "storico" secondo me troppo scarso. Ma questo non avrebbe particolare importanza. Il fatto è, invece, che di tutte queste dottrine nessuna sembra reggere al vaglio critico di Jervis, ognuna rivela il suo lato debole, le sue aporie logiche, le sue carenze. Ed è_quindigiustamente criticata, direi quasi punitadaJervis. Ma poi, e questo è un altro rilievo, quando per così dire si tirano le somme, quando Jervis parla in prima persona ci si accorge che nessuna di quelle false dottrine è esclusa del tutto, che ognuna ha qualcosa di giusto o di giustificato, e che quindi non si tratta di escludere questa o quella dottrina dall'universo del sapere analitico. Si tratta di usarle, tutte e ciascuna, al vaglio di una certa cautela, di un certo buon senso, so20 prattutto di un buon senso clinico. E allora viene da chiedere a Jervis se tutta la sua straordinaria ricerca non approda a troppo poco, in questo libro, se non si tratta di una reticenza finale, di un proposito di conservazione che alla fine prevale sul deserto della critica. Io credo che si tratti di questo, credo cioè che Jervis voglia e sappia più di quanto dice e vada ben oltre quella cautela e quel buon senso sempre ripetuti in questo libro. Credo cheJervis oscilli fra un intelletto spietato e una prassi benevola, credo che in lui si combattano un proposito distruttore, sulla base di un'intelligenza acutissima, e un proposito pedagogico, bonario. Come di chi, avendo visto il deserto, vi riconosca poi alcune parti meno sabbiose, dove è ancora possibile vivere. Il libro ha come due livelli, non distinti ma come contrapposti: l'esame critico che tende a un ragionamento assoluto e libero, e una parte bibliografica, di ripresa e di illustrazione. Il risultato è di una bibliografia ragionata da una parte, edi unasistematicitàconcettualedall'altra dove nessuna delle parti riesce a comporsi del tutto con l'altra. Si direbbe una descrizione giudicante. Il lettore, o almeno io, rimane con il forte desiderio di una scelta fra ivari campi, o almeno di alcune posizioni che siano assertorie senza residui, forse sbagliate o, perusare il linguaggio di Jervis, interrogabili, per poterne forse scoprire l'insensatezza. Ma con l'augurio che dopo questa grande e meritoria fatica di ricostruzione critica si assista a qualcosa di più che aun•altra interrogazione, e aqualcosadi più spietato che la cautela e il buon senso.Naturalmente, per concludere con le parole di Jervis, nella "profonda crisi teoretica che va vissuta come tale senza illusioni". Partendo dalla crisi teoretica radicale, momento origir,larioepunto di arrivodellibro e sua necessaria conclusione, vorrei però osservare ancora qualcosa. Quello che ho detto è tutto ali' interno del libro, cioè non si confronta con al- . tre prospettive. Ma anche il libro è così, cioè esso si muove ali 'interno del! 'universo della psicoanalisi, e se si muove al di fuori è sempre a partire dalla psicoanalisi a cui poi finisce per ritornare. Inoltre i suoi percorsi non escono mai dall'universo della medicina. L'aspetto terapeutico, l'abbiamo già visto, non è mai abbandonato: esso compare a caratterizzare le diverse definizioni della psicoanalisi, accolte o respinte in relazione con la malattia e la cura. Ora, ma anche Jervis lo dice, questo presup- ·pone una particolare lettura di Freud e in particolare un giudizio, del resto più volte esplicitato: Freud, se si allontana dalla clinica, cade in errore, o meglio cade nella speculazione, nella fantasia. Gli scritti che dimostrano questa "deviazione" o, per altri, il proposito di andare oltre l'aspetto terapeutico o anche solo il rapporto con la clinica, sono irrilevanti. Di essi, non vale la pena di parlare. Così come è da respingere qualsiasi proposito o progetto di formulazione definitiva di sistema concettuale e di costruzione teoretica. Tutto il libro di Jervis, si potrebbe dire, dipende da questo che, insieme al rapporto tra paziente e medico, ne costituisce il filo conduttore. Ma, equi èunadomandacherivolgo aJervis, mi sembra che il suo discorso siaeccessiv amente riduttivo rispetto a Freud e anche ad altre scuole psicoanalitiche. Ad esempio, ma è solo un esempio, anche se forse il più rilevante, Jervis non accenna agli scritti di metapsicologia, quelli già noti e l'ultimo sulle nevrosi di traslazione, da poco scoperto e pubblicato. Qui, in questi scritti, vi è, si potrebbe dire, qualcosa di più e non solo di diverso rispetto alla psicoanalisi connessa alla clinica; vi è, come è noto, il proposito di scoprire il significato della storia e di proporne un itinerario. Ora, e la domanda è questa: è proprio vero che siano tutte fantasie? Il fatto è che Jervis, come ho detto prima, si riferisce alla medicina nelle sue varie denominazioni relative alla cura dei disturbi mentali. La "novità" della metapsicologia è, oltre che nel proposito teoretico-conoscitivo, invece nell'alleanza con altre discipline, e sempre nel proposito di fondarne diversamente gli statuti e i concetti operativi. Mi ricordo che nella introduzione all'edizione della minuta teorica di Le nevrosi di traslazione, Ilse Grubrich Simitris, che l'ha scoperta, postulava una possibile "rivoluzione" che questi scritti di Freud, insieme a quelli di Ferenczi, avrebbero potuto arrecare alle scienzedell 'uomo. Mi chiedo quindi se questo progetto di Freud sia davvero una fantasia. La realtà, secondo me è che per Jervis, in questo libro almeno, non ci sono per così dire alleanze o progetti possibili per la psicoanalisi. E quindi, mi verrebbe da concludere, anche per Jervis esiste, presupposta, una certa "essenza" della psicoanalisi che poi verrebbe a sua volta negata; e qui potrebbe ricomparire, anche se in forma diversa, quella "ortodossia" di cui parla Jervis ancora una volta per negarla. Jervis non vuole alleanze. Cade per lui, quindi, il grande progetto del movimento psicoanalitico che si proponeva di invadere le altre scienze, di conquistarle. • Ma se cadono le alleanze, e forse è giusto che cadano, rimane un qualcosa che la definizione di esercizio critico mi pare non soddisfi appieno. Una seconda osservazione, ma è sempre nel tema delle alleanze. Il rapporto con alleanze storiche, e la storia di questo, è del tutto trascurato. Ad esempio l'alleanza con il marxismo. Bastano a Jervis poche parole e il problema è risolto, anzi non si pone. Se questo è vero, però allora non si capisce perché quella stessa alleanza con la medicina non debba essere posta in discussione. Certo, in certo modo lo è, ma per salvare ancora una volta appunto l'aspetto "terapeutico". Mi chiedo allora se non sarebbe stato necessario investire di tutta la capacità critica di cui Jervis dispone appunto l'aspetto terapeutico non solo nel rapporto paziente-analista che qui è illustrato con eccezionale attenzione critica, ma nel significato e nella possibilità della cura, e per essa della malattia. Jervis, come si sa, ha preso parte attiva a un grande progetto della psichiatria. Neèstato parte dirigente e credo, anzi sono sicuro, che non nega nulla di quella esperienza. Là, come tutti sanno, era la malattia mentale, o meglio anche la malattia mentale e non solo le istituzioni a essa relative, a essere messa in causa. Non per negarla, come alcuni avrebbero voluto ehanno an- •

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